di Nello Benassi
In questi giorni di reclusione forzata in cui cerco di farmi spazio tra la noia di giornate che scorrono lente e monotone ho fatto un incontro alquanto singolare con qualcuno che conosce bene la sensazione di straniamento dalla propria realtà quotidiana. Sto parlando di Hester Pryenne, la protagonista del romanzo più famoso di Nathaniel Hawthorne: La lettera scarlatta.
È il 1642 e ci troviamo nella neonata colonia puritana di Boston, nel New England. Il romanzo si apre con la descrizione del portone della prigione, provato dalle intemperie. Il prato antistante è occupato da una folla in fermento, le porte si aprono e lo sguardo di tutti si rivolge a una giovane donna che tiene in braccio una bambina nata da poco. Ciò che però l’attenzione di tutti è un simbolo, cucito sul suo abito all’altezza del petto, una lettera A di colore scarlatto. Il significato è chiaro a tutti: è l’iniziale della parola adulterio adultery. Hester si rifiuta di rivelare il complice di quel peccato. La storia si complica quando la donna viene condotta sul palco della gogna, dove uno strano individuo ricambia lo sguardo di Hester. Veniamo poi a sapere che si tratta di suo marito, rimasto per un periodo in Europa e poi creduto morto. Roger Chillingworth vuole vendetta e anche se Hester non è disposta a rivelare l’identità del padre della piccola Perla, il vecchio medico non è disposto ad arrendersi e dopo aver fatto promettere alla moglie di non rivelare a nessuno la sua vera identità avvia le sue indagini. La comunità di Boston riconosce come guida spirituale un giovane pastore, Arthur Dimmesdale, in cui riconosciamo la figura dell’amante di Hester. Data la sua natura cagionevole, gli amici insistono perché si affidi alle cure di un medico. Ora a Chillingworth non resta che prendersi la sua vendetta, ma non prima di aver tormentato l’anima e la psiche del povero pastore. Passeranno sette anni prima che Hester, pentita, riveli la verità all’amante e le loro anime possano essere salvate dalla dannazione eterna.
All’interno dell’opera emergono due diverse visioni del modo: la prima è quella di Hester e la seconda è quella di Arthur Dimmesdale. Ottiche complementari che nel secolo successivo avrebbero portato alla Rivoluzione Americana infiammando gli animi delle 13 colonie. Hester è il prodotto della sua condizione da emarginata che “trascina l’individuo fuori dai normali rapporti con l’umanità, relegandolo in una sfera tutta sua”. Una visione razionale del mondo e delle sue possibilità. Quello che potremmo definire illuminismo ante litteram si fa strada nei recessi del cervello di Hester, “la legge del mondo non sia applicava alla sua mente”. Arthur è il portavoce della teologia puritana e del profondo rapporto che questi coloni vivono con la divinità. Un uomo ispirato dalla provvidenza che vive il proprio rapporto con la spiritualità in maniera individuale e “nessuno oserebbe intromettersi tra un uomo e il suo Dio”. L’autodeterminazione del giusto e della propria individualità unite alla ragione tribunale di ogni decisione e espressione dell’io sono le caratteristiche che hanno forgiato un’epoca.
“Sia benedetta l’integerrima colonia del Massachussets, ove l’iniquità è trascinata alla luce del sole” dice un uomo il giorno in cui Hester è condotta sul palco della gogna. Questa frase, forse meglio di alte, descrive la società puritana del 1600. Cosa si intende con iniquità? Non è la semplice violazione di un costume sessuale rigidamente imposto, ma qualcosa di più radicato. L’iniquità è il venire meno al proprio rapporto con Dio, con noi stessi, con il bene. Arthur Dimmesdale lo sa meglio di chiunque altro. Quando la sua fede e i suoi punti di riferimento iniziano a vacillare e il Diavolo, l’istinto primordiale a fare del male, si apre un varco nel suo cuore, il povero pastore “diviene un’ombra, addirittura cessa di esistere”. Questo dovrebbe bastare a farci capire come la religiosità puritana sia sì, una società in cui legge e religione si fondono in una morale austera e restrittiva che spaventa lo stesso Hawthorne che ne prende le distanze nell’introduzione dell’opera, ma è anche progenitrice dell’uomo come prodotto della propria analisi interiore.
Nelle parole che Hawthorne affida ai pensieri di Hester emerge una riflessione molto interessante sulla figura femminile e della parità di genere. Hester non può fare ameno di interrogarsi sulla sua essenza di donna in una società che respinge anche le più felici di loro lasciandole ai margini della vita. La soluzione è drastica perché comporta non solo “abbattere completamente la struttura sociale e cambiare le abitudini –radicate da millenni di storia- dell’altro sesso”, ma anche perché “la donna non potrà avvantaggiarsi di queste riforme preliminari finchè lei stessa non sarà passata per un cambiamento ancora più grande”, un cambiamento che le porterà a scorgere le condizioni che le hanno rese succubi del predominio maschile.
Hawrhorne parla spesso di sentimenti e la sua osservazione riguardo il rapporto tra amore e odio è molto particolare. Entrambi presuppongono, per raggiungere il loro massimo sviluppo, una profonda conoscenza e intimità, ciascuno agisce in modo da far dipendere una persona dall’altra e la scomparsa dell’oggetto dell’uno o dell’altro sentimento provoca smarrimento. Le due passioni, dal punto di vista filosofico sono essenzialmente la stessa cosa, “tranne per il fatto che l’una ci capita di scorgerla in una chiarezza celestiale, mentre l’altra in un fosco chiarore rossastro”. La riflessione sulle emozioni è tipica dell’ideale romantico ottocentesco che si cela dietro le pagine di tutto il romanzo.
Leggendo “La lettera scarlatta” non mi sono trovato davanti una vicenda datata, ma una storia dinamica di un dramma umano molto attuale. Hester non è ferma tra le pagine di un libro. Hester è Marco, che a soli 14 anni si è tolto la vita perché preso di mira dai bulli. Hester sono quelle ragazze le cui foto private venivano inviate su gruppi telegram di Revenge porn. Hester siamo noi. Forse la lettera scarlatta non è solo un simbolo, ma il sintomo di urlo di aiuto a cui dovremmo porgere l’orecchio invece di voltarci dalla parte opposta perché se “l’incanto sopravvive”, lo fanno anche il dolore e l’indifferenza.
Questo libro di Hawthorne ha una forza magnetica che non ti permette di staccare gli occhi dalle pagine, proprio come la lettera scarlatta sul petto di Hester Pryenne. Leggendo nasce spontanea una domanda: come può un libro del 1800, ambientato nel 1600, conservare intatta la sua attualità? Forse perché come dice Italo Calvino nel suo libro “Perché leggere i classici”: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.”