La categoria è: vivi, sfoggia, posa!

di Nello Benassi

“Vivi, sfoggia, posa” esclama la voce di Billy Porter nella sigla della serie tv ‘Pose’, che ha fatto il suo debutto il 3 giugno 2018 sull’emittente statunitense Fx. Prima ancora di essere frutto della penna di Rhyan Murphy, il re Mida della televisione americana, la serie nasce da un vecchio documentario. Bastano poche ricerche in rete per trovarlo: si chiama ‘Paris is burning’ di Jennie Linvingstone ed è una perla rara di realismo.

La serie ci teletrasporta nel tempo e nello spazio: sono gli anni ‘80 e ci troviamo nel quartiere Harlem di New York. Quando lo scontro razziale era al suo picco massimo e all’orizzonte si sentiva il profumo della rivoluzione che avrebbe travolto la nazione all’alba del nuovo secolo. 

Nella città che non dorme mai non c’era spazio alla luce del sole per le minoranze. Essere neri, ispanici, omosessuali, drag o transgender significava avere una vita tutt’altro che facile.

L’unico posto in cui queste persone potevano brillare e illuminare quell’oscurità a cui erano stati costretti dalla società erano le cosiddette ‘ball room’: piste da ballo in cui le persone, raggruppate in house (famiglie), si sfidavano partecipando alle ball (competizioni) suddivise in categorie. In mancanza di un affetto genitoriale sul quale contare a causa dell’affermata omosessualità, quella house diventa per molti l’unica casa dove sentirsi amati, rispettati e al sicuro. Sarà proprio questo il motivo che nella serie spingerà Blanca, una donna trans di origini ispaniche, a creare la propria ‘house’ con l’intento di salvare i giovani abbandonati a se stessi e dar loro la speranza di un futuro. 

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Cancellare la coscienza storica è giusto?

di Ludovico Tambellini

   Negli ultimi tempi, dopo il delitto di George Floyd avvenuto il 25 maggio 2020 a Minneapolis da parte della polizia, è nuovamente venuta alla luce la violenza delle forze dell’ordine e l’impronta fortemente razzista della giurisdizione americana. Paragonabile all’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, l’omicidio di George Floyd non è stato altro che la goccia che ha fatto traboccare il vaso, portando alla creazione del movimento “Black Lives Matter”, ossia una protesta guidata dalla comunità afroamericana sulla falsa riga delle rivolte di Martin Luther King.

   Tutto ciò ha causato maggiore attenzione e sensibilizzazione su determinati temi, che per quanto giusta e dovuta, in alcuni casi può scadere in estremismi che spesso hanno poco a vedere con l’intento iniziale della manifestazione. Difatti una limitata parte dei dimostranti ha ritenuto corretto vandalizzare e distruggere statue che dovrebbero essere portavoce di un America razzista, e tra queste sono finite nell’occhio del ciclone soprattutto quelle rappresentanti Cristoforo Colombo. A dire il vero la sua figura, in particolar modo negli “States”, è spesso oggetto di mala informazione; addirittura il 12 ottobre di ogni anno viene festeggiato un intero giorno dedicato al suo elogio. Di certo la dilagante mancanza di formazione culturale, in particolar modo negli Stati Uniti, non permette la visione chiara del quadro storico pre e post colombiano con conseguente idealizzazione della figura del colonizzatore. Non si possono negare gli indicibili crimini di cui si è macchiato Colombo, ma è giusto cancellare il passato e parte della coscienza storica?

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