Grand Jeté verso la scrittura

Un’intervista a Leonetta Bentivoglio a cura di Federica Evangelisti

 

Ho intervistato Leonetta Bentivoglio, scrittrice e giornalista italiana che ha avuto nel suo passato esperienze di danzatrice e coreografa. È stata storico della danza e autrice di volumi sulla danza contemporanea e sul teatrodanza di Pina Bausch. Ha collaborato con diverse testate e scrive dagli anni Ottanta sulle pagine di Cultura e Spettacoli del quotidiano La Repubblica. Per alcuni anni ha fatto il critico di danza. Attualmente si occupa soprattutto di musica classica e di letteratura con interviste e recensioni.

 

1) Come mai ha scelto di fare la giornalista e soprattutto, all’inizio del suo percorso, di focalizzarsi sulla danza?

“Voglio chiarire subito una cosa: oggi non lavoro più nell’ambito della danza. Ma è vero che ho iniziato il mio itinerario professionale come storico e critico di danza. Ho seguito sempre, fin da ragazzina, le arti dal vivo: musica, danza e teatro. Parallelamente ho sempre amato moltissimo scrivere.

Mi sono laureata in Filosofia negli ultimi anni Settanta, e mentre stavo all’Università ho cominciato a collaborare con “Il Manifesto”.

Io stessa studiavo danza. Durante la mia giovinezza ho frequentato classi quotidiane di danza contemporanea e sono stata attratta soprattutto dai linguaggi del Novecento, secolo lungo il quale sono nate nuove tecniche e nuovi stili alternativi al balletto classico-accademico. Il fatto di scrivere sulla danza coniugava le mie due maggiori passioni.

Dopo la laurea in Filosofia, presa a Roma, sono andata negli Stati Uniti dove ho coltivato molto il mio interesse per la danza contemporanea. Ho trascorso un periodo piuttosto lungo a New York studiando in prima persona le tecniche di Martha Graham e di Merce Cunningham, due tra i massimi coreografi americani del ventesimo secolo. Ho scritto un libro, “La Danza Moderna”, pubblicato da Longanesi, che poi, negli anni Ottanta, è stato rivisto, ampliato e riproposto dallo stesso editore con un altro titolo, “La Danza Contemporanea”. Si trattava dell’unico libro esistente sui linguaggi emersi nel Novecento, ed ebbe una certa diffusione. Grazie al suo piccolo successo, ho iniziato a collaborare con “L’Espresso” per poi passare a “Repubblica”.

Ciò che mi preme segnalare è che mi sono dedicata al lavoro di critico di danza, in maniera intensa e a tempo pieno, soltanto fino agli anni Novanta. Dopo sono stata assunta nella redazione culturale della “Repubblica”, dove scrivo da decenni. Anche adesso che sono in pensione, continuo a lavorare per “Repubblica” come collaboratrice esterna. Per molto tempo ho lavorato all’interno della redazione, e ovviamente, stando dentro un giornale, non ci si può occupare soltanto di danza. Mi sono quindi dedicata pure ad altri settori, approfondendo quelli che erano già i miei interessi. Avevo seguito e anche studiato la musica, ed ero stata sempre una fortissima lettrice di romanzi. Da vari anni, ormai, mi occupo giornalisticamente di musica classica, di lirica e di letteratura. Credo di potermi definire una giornalista culturale. Leggi tutto “Grand Jeté verso la scrittura”

Il mondo della traduzione raccontato da Isabella Blum

Un’intervista alla traduttrice italiana di alcune opere di Oliver Sacks e di altri autori.

A cura di Silvia Barsotti

 

Silvia Barsotti – Per prima cosa vorrei chiederle in quale modo ha deciso di avvicinarsi al mondo della traduzione, so che è un ambito molto sottovalutato, al quale non viene data l’importanza che a parer mio gli spetterebbe. Proprio per questo sono curiosa di cosa la abbia spinta ad entrare a farne parte, se è stata consigliata o indotta da qualcuno o se l’ha fatto di sua spontanea volontà.

Isabella Blum – Domanda interessante, entriamo subito nel vivo. In che misura l’immagine di una professione, il suo «prestigio» percepito, attira le persone, le spinge ad avventurarcisi? Dalla mia attuale prospettiva, a posteriori, quell’immagine non dovrebbe contare affatto. A spingerti a imboccare una strada dovrebbe essere quanto quella strada effettivamente ti attrae, quanto ti interessa. Ti piace fare X? E allora fallo. Provaci. E comunque, se io avessi effettuato la mia scelta affidandomi anche a una valutazione del «prestigio», non avrei avuto alcuna esitazione. In casa, da bambina, ho sempre sentito parlare di traduzione come di un’attività di alto profilo, importante, interessante. C’era una carissima amica di mio padre e mia madre che era un’importante traduttrice di romanzi. Quindi sono cresciuta vedendo lei, il suo mondo, il suo lavoro – e di conseguenza il tradurre libri in generale – come un’attività bella, importante, attraente. La consapevolezza che invece, in alcuni ambiti, la percezione del tradurre fosse diversa, diciamo più problematica, l’ho avuta dopo, quando avevo già cominciato a lavorare. Dall’interno, e non dall’esterno.

Resta da dire come sono entrata in quel mondo. All’università io ho studiato biologia, mi stavo preparando per una carriera da ricercatrice. La mia idea sarebbe stata, all’epoca, di restare a lavorare all’università, ma era un momento in cui gli spiragli per i giovani in ambito accademico erano veramente prossimi a zero. E siccome io avevo bisogno di lavorare, feci domanda per essere assunta in una casa farmaceutica. Mi fissarono un colloquio, andò bene e mi presero a lavorare con loro: non nel settore ricerca, però, bensì in quello della produzione dei testi scientifici relativi ai prodotti dell’azienda. In pratica, mi occupavo per otto ore al giorno di traduzioni e scrittura (sono stati anni in cui ho imparato moltissimo, sia sul piano scientifico, sia su quello della comunicazione e della scrittura/traduzione). E così sono entrata in quel mondo: il mondo di una traduzione scientifica molto tecnica. Poi da lì mi sono spostata verso il campo editoriale, e verso tipologie di testi ugualmente densi, ugualmente ricchi di scienza, ma di tutt’altra natura – la saggistica scientifica.  Ed è stato un gran bel colpo di fulmine. Leggi tutto “Il mondo della traduzione raccontato da Isabella Blum”

Il giornalismo di ieri e di oggi

Un’intervista al giornalista de La Nazione Oriano De Ranieri a cura di Rebecca Giusti e Marina Senesi

Oggi vorremmo portarvi qualcosa di diverso da un articolo vero e proprio. Creeremo un giornale dentro al giornale, come se quello che scriviamo parlasse da solo della scrittura. Oggi sarà il testo stesso a presentarvi il giornalismo, dal punto di vista di un distinto signore che ha vissuto queste esperienze sulla sua pelle, trent’anni fa, e continua ad osservare ancora oggi con discrezione, con tutti i cambiamenti fenomenali che sono avvenuti, il mondo magico che è l’informazione.

Abbiamo fatto qualche domanda a Oriano De Ranieri, giornalista professionista dal 1979. Con un’esperienza lavorativa all’ “Avvenire”, giornale cattolico, ha lavorato anche a Milano, poi a Lucca a “La Nazione”. Laureato in Lettere moderne e in Scienze religiose, è in pensione da 15 anni. Scrittore di tre libri dedicati a Puccini: “Giacomo Puccini, luoghi e sentimenti, “Le donne di Puccini” e “La religiosità di Puccini, la Fede nelle opere del Maestro”.

Inizialmente abbiamo fatto una videochiamata informale con Oriano, il quale con piglio deciso e battute svelte e puntuali, ci ha spiegato che cosa è stato il suo lavoro, cosa ne pensa del mondo di oggi, la sua visione sulla vita dopo tanti anni passati a relazionarsi con carta, penna, macchine da scrivere e notizie da acchiappare come si colgono le farfalle, col retino e molto velocemente. Ci ha parlato di quando alla redazione della “Nazione” con la prima macchina da scrivere che arrivò nel complesso di uffici, fecero le due di notte per cercare di capire e scoprire ogni trucco di quel marchingegno ticchettante, un incrocio tra una sveglia che fa “clac clac” e una personcina magica che ti scrive ciò che detti. Ma ora vi lasciamo alla sua voce, che, leggendo dall’e-mail che ci ha mandato con le risposte alle domande che volevamo porgli, traspare da tutte le lettere di cui sono composte le sue frasi.

  • Tra i vari giornalisti che lavoravano ai suoi tempi, che aria si respirava e che relazioni esistevano tra di voi? Lei aveva un buon rapporto con i colleghi o era presente quella competizione che si vede spesso nei film, con la caccia allo scoop o all’articolo più riuscito che spesso sovrasta i rapporti umani? Lavoravate insieme come un team o c’era tensione, malizia fra di voi? Qual è stata la sua esperienza?

Alla Nazione ero un mediatore. Il caposervizio che proveniva dal Tirreno (allora non c’erano giornali on line) non voleva contatti con il giornale dove lavoravo io. Avevo formato un’associazione di giornalisti de La Nazione e del Tirreno che dopo poco fallì perché c’era una concorrenza sfrenata, incoraggiata dai capi di Firenze e Livorno. Una ricerca continua di scoop: in provincia allora non c’erano addetti stampa e le notizie (a parte quelle del Comune, dei carabinieri e della polizia) te le dovevi cercare. Se il giornale concorrente aveva una notizia grossa che tu non avevi erano guai: arrivava subito la telefonata dei capi di Firenze con rimproveri, anche forti. Ora non è più così. I “buchi” ovvero le notizie che ha un giornale e l’altro no, si danno e si prendono. Leggi tutto “Il giornalismo di ieri e di oggi”

Indro Montanelli, giornalista e scrittore: parte seconda

Domande e risposte.

Trascrizione a cura di Alessandro Rosati

Domanda: per quanto riguarda il rapporto tra vero, verosimile e giornalismo. Citando Montanelli lei ha detto “meglio raccontare la verità con aneddoti falsi”, ma la domanda sorge spontanea: così facendo non si esce dal campo del giornalismo?

Alberto Malvolti: Giustamente tu applichi al giornalismo una definizione classica, per cui il giornalismo è semplicemente un racconto distaccato e obiettivo dei fatti. Certamente questa operazione di introduzione di elementi narrativi nella scrittura giornalistica è un passo abbastanza audace da parte di Montanelli. Però funziona. Funziona perché nessuno dei soggetti raccontati da Montanelli, come personaggi, si è mai lamentato che la sua personalità era stata tradita dal racconto. La personalità è risultata vera anche se c’erano degli aneddoti “di colore”. Il verosimile è stato una verità, meglio di un realismo puro e semplice che non diceva molto del personaggio. Proviamo a fare una riflessione su tre termini: verità, vero e verosimile.

Se io dico “vero” intendo quello che è accaduto, un fatto vero. Se faccio un ritratto di una persona rendendola verosimile, posso sia “tradire” quella persona e raccontare il falso, sia raccontare una verità. Si può descrivere qualcosa con elementi che non fanno parte del “vero”, ma che attraverso il “verosimile” rendono un ritratto di “verità”.

La risposta che Montanelli ha dato ad Emilio Cecchi è la più eloquente per questa domanda: con tanti “pezzetti” di verità, a seconda di come sono disposti, si può costruire un ritratto completamente falso. Un po’ come un collage di pezzi di foto con cui puoi fornire un’immagine diversa. Un ritratto di un grande pittore invece può estrapolare di più da una persona, rispetto ad una fotografia con un sorriso stereotipato, fatto giusto per essere fotografati. Tirare fuori la verità richiede spesso e volentieri una buona dose di verosimile: il collage (di pezzetti di verità, ndr) da solo non è sufficiente, anzi a volte può servire per raccontare delle “mega” bugie. Tra l’altro non è un caso che Montanelli esprima questo concetto proprio a Cecchi, uomo di grande spessore che sapeva di avere la stessa linea di pensiero.

Domanda: Una domanda che probabilmente ha già affrontato: sotto tutti i punti di vista, cosa vuol dire essere un giornalista?

Alberto Malvolti: Probabilmente se lo chiedete a 10 giornalisti, avrete 10 risposte diverse. Tra l’altro quello che penso io ha anche poca importanza, perché io non sono un giornalista e non frequento redazioni di giornali. Sono abbastanza sprovveduto da questo punto di vista. Essere giornalista al tempo di Montanelli, nella sua concezione, era quella di essere un testimone: vedere e poi raccontare i fatti. Questa potrebbe essere una definizione di quel ramo particolare del giornalismo che si chiama reportage. Montanelli è stato famoso negli anni’ 30/40 per il reportage di guerra e poi di viaggio (in Giappone, in America, In Africa ecc). È anche vero che oggi questa forma giornalistica, non dico che è tramontata, però è in un ambito molto limitato. Il modo di procurarsi le notizie ormai passa attraverso agenzie di stampa, internet ecc. L’individuo, il giornalista in persona, è passato in seconda linea rispetto al flusso di notizie che viaggia attraverso altri canali. Quindi il giornalista non ha più la figura di protagonista che aveva un tempo.

Vi voglio leggere una particolare definizione che diede proprio Montanelli. Alla domanda “sopravviveranno il giornali di carta?”, Montanelli rispondeva così: “Penso di sì. Il quotidiano tradizionale è un’invenzione a suo modo perfetta: si piega, si trasporta, si legge si butta. I quotidiani come li conosciamo diventeranno però (era il 1999, il mondo è ulteriormente cambiato) l’abitudine di una minoranza ancora più ristretta di quella attuale. Il motivo? La concorrenza. Sessant’anni fa, quando ero inviato speciale, l’Italia aspettava i miei articoli per sapere cosa stava accadendo in Finlandia. Oggi qualsiasi avvenimento è coperto, come si dice in gergo, da televisioni, radio, quotidiani nazionali e locali, agenzie, settimanali, mensili, internet e quant’altro. Questo bombardamento di informazioni equivale spesso a nessuna informazione. Vuole sapere se sono amareggiato? No, sono rassegnato. Ho l’impressione che i quotidiani diventeranno un segno di distinzione, come i libri, i congiuntivi e le posate d’argento. Verranno molto copiati, molto citati, ma letti poco. Alcune informazioni specializzate arriveranno da internet, se ho capito cos’è, non mi stupirei quindi se l’offerta di questi media, sempre a caccia di grandi numeri, scendesse ancora di livello”. Diagnosi abbastanza pessimista, come si vede, anche troppo. Il vecchio Montanelli tendeva ad inclinare verso il pessimismo. È chiaro che nel vedersi cambiare il mestiere tra le mani avesse questo tono pessimistico.