di Rebecca Giusti
Michelle se ne stava seduta con un libro, che non si sarebbe mai sognata di comprare se non gliel’avesse regalato la vecchia zia Marge, su una sedia a dondolo nel patio della sua casa. Quell’estate era una delle più calde mai viste da quando gli anziani della città ne avevano memoria, mischiando sogni, ricordi sbiaditi e, come tutti credevano ma nessuno diceva a voce alta per paura di offenderli, immaginazione.
Il libro l’aveva trovato a Porto Calle aveva detto, dove tre volte a settimana c’era un mercatino dell’usato frequentato da tutte le persone, che accorrevano fuori nella calura estiva che sembrava facesse sciogliere anche le palme, per cercare di fare affari urlando tra i banchi cifre che si perdevano a mezz’aria, per contrattare o solo per combattere la noia di vivere. Lei stava placida in giardino, sfogliando le pagine gialle di quel romanzo americano che parlava dell’amore a detta di sua zia, ma poi come aveva scoperto lei stessa, era la storia di quattro sorelle con uno strano, quanto mai americaneggiante nome: March. Osservava con sgomento e rapimento la vita di quelle donne che non avrebbe conosciuto mai, e si rammaricava profondamente di non potere, neanche per caso, al mercato o in una strada qualunque, salutare quelle ragazze che le sembravano così familiari. Quanto le sarebbe piaciuto far vedere la sua stanza a Beth, avrebbero suonato insieme il pianoforte a coda lasciatole in eredità da un parente di cui non sapeva neanche il nome e sarebbero andate a piedi fino al mare con le facce madide di sudore. Si sarebbero dette mille cose e quanto, quanto avrebbe voluto nascere sorella di qualcuno.
In realtà il regalo aveva un altro scopo. Da quando era bambina, lei era sempre stata schiava dell’amore. Si innamorava perdutamente di un garzone al porto, un falegname che sistemava la loro enorme e vecchia casa e non viveva più, riusciva solo a stare in giardino e guardare le calle nei grandi vasi che costeggiavano il loro intimo terreno interno. A quindici anni aveva provato l’amore, poi un altro, un altro ma quel suo cuore di donna mite stava diventando liso a causa di quella vita dedicata ad amare. Quando colui a cui indirizzava tutto il suo ardore svaniva e se ne andava, lasciandola in giardino a fissare i suoi fiori, un pò di Michelle diventava vapore che saliva fino in cielo, e chi lo sa se sarebbe mai ridisceso dentro di lei. Non riusciva a contenere questo suo essere, che straripava nonostante lei cercasse tutti i giorni di costruire dighe a ciò che erano i suoi sentimenti per evitare di annegare un’ulteriore volta nelle acque di una speranza vana.
Si crogiolava per l’ultimo amore che era stato in lei presente come un fuoco che divampa nelle viscere. Michael lavorava al banco della frutta il mercoledì mattina e lei, andata a prendere un po’ di banane e pesche per non rimanere ad oziare nella casa troppo calda, aveva deciso di dirigersi proprio lì. Non appena l’aveva visto, sapeva che un po’ del suo cuore si sarebbe trasformato in aria calda ma si era buttata comunque. D’altronde era una sarta esperta ormai, che sapeva rimettersi insieme dopo le peggiori esperienze e tumulti interiori, quindi ormai sembrava continuamente sfidarsi a rimanere intera, imponendosi come obbiettivo personale di soffrire un’ultima volta.
Anche lui se n’era andato via ad un certo punto, e lei era di nuovo rimasta sola. La zia Marge aveva pensato che ciò che le serviva era un libro, ma come si fa ad arginare il nostro essere con delle pagine? Forse questa doveva essere la sua vita. Se ne tornò in casa, era stata tutta la mattina dalle sei in mezzo all’erba, ma non a leggere, semplicemente a guardare le figure e a respirare l’odore lontano di quella famiglia che stava male, aveva lutti, soffriva ma si ricuciva da sola.
Entrò in cucina dove la madre stava preparando il pranzo domenicale. Le chiese: “Perché gli esseri umani si impegnano sempre, continuamente, con tutte le loro forze a cercare ciò che non gli farà bene?”
La madre era una donna semplice, la figlia non credeva avesse mai provato amore. Si svegliava, cucinava, palava di argomenti che non interessavano a nessuno e non riusciva a capire l’indole di colei che era uscita dal suo grembo. Le pose questa domanda con malinconia e nostalgia di un tempo indefinito, pronunciando le parole a mezz’aria e di certo non aspettandosi una risposta.
La madre si fermò immediatamente e si voltò come se volesse dirle un segreto, dopodiché posò il mattarello: “Bimba, noi comprendiamo e crediamo di accettare quell’amore che pensiamo siano consono a noi. Accogliamo a braccia aperte ciò che pensiamo di meritare. Speriamo, urliamo e lottiamo per farlo essere ciò che non è. Fino in fondo, l’essere umano pensa che ciò che sta rincorrendo da giorni, mesi, anni sia quel passo che gli serve per finire lo sforzo e arrivare a ciò che cerca da sempre. Ma cos’è che cerchiamo? Nessuno lo sa. Quando arriviamo ad uno stato che solo minuti prima avremmo definito serenità, ci chiudiamo come ricci al sole nella piazza Del Cargo e improvvisamente ci convinciamo che volevamo tutt’altro. Siamo volubili e testardi, di una pasta cattiva come il lievito che si secca e non è più buono per il pane. Ciò che la tua mamma ti può dire, Michelle bellissima donna, è di non perdere tutta la vita a cercare ciò che non sai. Goditi tutto, assapora il dolore, strappati ciò che senti dall’angoscia che provi e gustati quella sensazione di ebrezza che ti fa librare in aria e dura meno del battito d’ali di una libella sul lago. Respira l’aria calda e cammina, ciò che ti aspetta nessuno lo sa.” Michelle aveva gli occhi lucidi.