di Rebecca Giusti
Passava con la sigaretta in mano mezza spenta facendo zig zag tra brutte buche e pezzi sconnessi di strada che si trovavano in centro. Nessuno decideva mai di asfaltare quelle strade, che rimanevano sempre a metà dando un’idea di fatiscente nonostante le costruzioni rispettabili che si trovavano intorno, con terrazzini pieni di fiorellini borghesi che contrastavano con i barboni stesi accanto alle insegne dei bar a godersi il solicino del giugno romano. Aveva una grande aura di fumo intorno, un po’ per la calura che sembrava la facesse evaporare ed in parte perché con tutte quelle sigarette che si fumava poteva benissimo essere scambiata per una ciminiera ambulante. Così la chiamava sua madre. Cucinava e fumava. Si sedeva e fumava. Tante volte mentre si faceva la doccia lasciava una sigaretta accesa sullo specchietto del bagno per fare qualche tiro mentre si insaponava la testa o si metteva l’olio profumato sul corpo. Continuò a camminare con il sacchetto in mano, pieno di buste di caffè, con sguardo assente mentre pensava ad una bottiglia d’acqua fresca che non c’era a casa, perché le aveva lasciate tutte in terra dato che la sera prima voleva dipingere una scultura fatta con tappi di plastica. Era stato riunirli tutti e appoggiare i contenitori e le fiasche provvisoriamente in terra, sperando che non formassero un lago per le zampate affettuose ma incuranti dei gatti. Sapeva che avrebbe trovato tutto allagato. Forse per quello, forse perché sua madre le aveva detto qualche giorno prima che “fumare in casa era da sgualdrine senza marito” (non era sicura sulla prima, ma la seconda infondo non era una menzogna), non se la sentì di rimettere piede dentro il suo appartamento caldo come un camino e fare tutte quelle scale solo per scoprire che doveva pulire tutto ed era una donna dai facili di costumi nell’opinione materna.
Continuò a comminare con l’aria un po’ ambigua per la città e le buste in mano, come una che ha fatto la spesa ma non ha voglia di sistemarla. Si grattava la testa di tanto in tanto sapendo che non ne sarebbe uscito niente di sensazionale per un’opera come dicevano tutti che sarebbe successo, ma solo cose che le erano già venute in mente. Le era tutto già venuto in mente. La sua mente non produceva più niente, era chiusa e sporca con pensieri che ci giravano dentro da sempre senza mai essere rinnovati o almeno modificati, come si fa magari con un letto, che quando è molto che ci stiamo dentro si decide di mettere a lavare le relative federe, coprimaterasso e coperte. Camminava fumando. Ad un certo punto arrivò ad un bar molto “perbenista” come l’avrebbe definito la sua amica Claudia. Una sfasciata come lei che componeva poesie lungo Trastevere e cercava di combattere il capitalismo vendendo sudici ninnoli Made in China o probabilmente prodotti da aziende americane. Tirò l’ultima volta dalla sigaretta e si mise a sedere su una sedia, con le buste sulle ginocchia. Fece una risata da sola in mezzo ai tavoli pensando di chiedere al cameriere: “mio caro amico conformista, potrebbe farmi un caffè con questi sacchetti di macinato per macchinette del caffè a gratis? D’altronde una proletaria come me deve pagare anche la forza lavoro dei conservatori?” ed aggiungere a questa ridicola sciorinata anche un sorriso convincente da personaggio politico in campagna elettorale, per far credere a quel ragazzino che in realtà la sua era una richiesta più che motivata, magari sperando che fosse una delle prime volte a prendere le ordinazioni per lo sprovveduto ragazzetto. Si grattò ancora la testa pensando ai tappi delle bottiglie. ‘Cosa le servo signorina?’ ‘Un caffè forte grazie’ disse, aprendo un nuovo pacchetto di sigarette con lentezza. Mentre cercava di fissare il sole, come faceva da bambina per vedere dopo quanto tempo le lacrimavano gli occhi, le cadde lo sguardo sull’altra parte della via, sull’ampio muro che costeggiava la larga strada. C’èra una scritta sbiadita e incrostata che non si leggeva bene, ma lei la vedeva. Con gli occhi ancora bagnati per aver fissato troppo a lungo quella luce accecante, si alzò dal tavolino di ferro cocente lasciando lì la borsa ed il caffè macinato. Attraversò lo spazio che la separava da quella brutta e anonima dedica che recitava: ‘Se ti odio è sempre un sentimento. Elia”. La toccò per un po’ e rimase lì ferma a fumare, senza cedere alla minima dimostrazione di qualunque cosa. Si ricordava quando Elia aveva scritto quella cosa. Cinque anni prima, se la memoria non era annebbiata anch’essa dal fumo che aspirava con la bocca. Era tornata da una giornata lunga per la strada, vendendo i suoi quadri che non piacevano a nessuno, solo a sovraeccitati tedeschi pelati in gita nella capitale dell’arte che trovavano attraente anche un piccione schiacciato nei pressi del Pantheon. Le facevano foto, negoziavano sul prezzo con sorrisetti mielosi e poche sbagliate parole che erano fieri di conoscere, e lei alla fine li regalava quasi i suoi dipinti. Cambiava solo di pochissimo il prezzo solo per sentirsi ancora una libera professionista e non una perfetta idiota sottopagata. Posò le chiavi sul tavolo del bilocale e andò alla finestra, dove c’era già Elia ad aspettarla. Si guardarono in silenzio e poi lui le disse: “Ora che è sera, posso finire il mio disegno, che mi sembra che di notte sei quasi più bella’” Lei rispose “Ah, stai dicendo che quando non mi si vede sono più affascinante eh? Allora stasera paghi tu le pizze con la cipolla perché in casa non c’è niente, io non ho soldi e dopo questa brutta battuta direi che me lo devi trottolino amoroso dududada….!” Fecero una risatina, annaffiarono le piante e poi si misero uno a dipingere e l’altra a posare. Lei mise una gamba sulla finestra aperta, in bilico sul vetro e poi a sedere in terra, assumendo una silhouette innaturale con l’intento di sembrare qualcuno che non era. Alcuni rotolini di pelle le uscivano dai jeans sformati trovati nell’armadio, che ormai era solo un posto dove accumulare cose senza riuscire più a capire cosa era da donna e cosa no, di chi era cosa e se alcuni vestiti erano da lavare o meno. “Sei bellissima Miriana” si guardarono a lungo, lei naturalmente aveva, non ritratta sulla tela, la mano con la solita sigaretta, quasi come se fosse la controfigura di Zeno nel libro a lui dedicato e tutte le volte fosse sempre l’ultima volta che si portava il tabacco alla bocca, ma alla fine non lo era mai. Dopo ore passate così lei ruppe il silenzio:” Elia ti ho tradito”, sussurrò come se suggerisse di fare un piccolo spuntino. “Lo sapevo Miriana, stavo solo cercando di reimparare ad amarti”, rispose l’altro, preso dalle scoscese linee del suo fianco, rese irregolari dalla scomoda posizione della donna. “Però non ci sono riuscito. Alla fine di questo quadro me ne andrò via Miriana. Ma se ti odio è sempre un sentimento, ed è il più forte che proverò mai per nessuno, lo so. Grazie per avermi insegnato a vivere, ti ho lasciato i soldi per la pizza fredda sul tavolo”. Continuarono per le successive tre, quattro ore a fumare, posare e dipingere. La notte scendeva e non ci si accorgeva più dove finiva la figura di Miriana, iniziava la finestra o dove terminava il pennello che guizzava sul foglio liso e iniziava la manica della camiciola sudata. Lei si addormentò così, con una sigaretta spenta tra le dita ed un disegno finito davanti, per risvegliarsi solo la mattina dopo senza aver cenato, con dei pochi spiccioli che non sarebbero mai bastati neanche per una bottiglietta d’acqua sul tavolo. Aveva un fiore appoggiato sulla testa, di quelli che odiava ed avevano un cattivo odore, piacevano solo ad Elia. Chissà se aveva voluto fargli uno spregio per ricordargli che senza di lui non sarebbe stata niente o voleva solo lasciargli un compenso per non aver raggiunto la cifra necessaria per un pasto dignitoso la sera prima. Lei si riaccostò al terrazzino che dava su un vicolo umido dalla calura, con le pareti che sembrava gocciolassero, pensando che quell’uomo l’aveva amato più di se stessa, si sarebbe strappata quello che era per darglielo e l’aveva fatto andare via solo perché non voleva che vivesse con lei, fermo in una stanza che era troppo piccola anche per una persona sola, con quella donna che era sempre ferma allo stesso stato d’animo, non riuscendo a cambiare la frequenza del suo essere un po’ perché non riusciva a non sentirsi sola e d’all’altra parte perché era una manovra che richiedeva forza l’amare e l’essere amati, e lei aveva un’indole piuttosto pigra. Anche su un ciglio di Via del corso, nel flusso continuo di pendolari, ragazzi scalmanati ed anziani era sempre quasi scollegata dalla realtà affollata che le si profilava davanti e non voleva che lui fosse costretto a rinunciare a tutto ciò che non lo faceva sentire isolato solo per un suo nostalgico e malinconico capriccio.
“Signorina, è pronto il caffè!!!! Le gridò un signore da dietro. Probabilmente il cameriere ingenuo che prima voleva prendere in giro con frasi che avrebbe capito solo lei. Tornò indietro al tavolino grattandosi nuovamente la testa, pensando a dove sarebbe stata adesso se quella frase non fosse mai stata incisa su quella parete di Roma. Si chiedeva anche come mai non le avessero rubato la borsetta e la misera spesa lasciate incustodite sul tavolino all’aperto nel grande spazio dove si trovava il locale, ma in entrambi i casi non avrebbe mai avuto una risposta.