di Camilla Rodella
“Arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. Il filosofo tedesco Schopenhauer e il poeta italiano Leopardi condividono l’idea che la vita non sia altro se non dolore. Leopardi accusa, come causa del male di vivere, la natura matrigna, a cui poco interessa il destino degli uomini. Schopenhauer, invece, elabora il concetto di Wille, il volere, che rappresenta l’assoluto che spinge per essere. Infatti tutto ciò che ci circonda non è altro che la forma assunta dal Wille. “Il Wille assoluto è inconoscibile; perché conoscere l’assoluto è una contraddizione ne’ termini. […] Il Wille che conosciamo è il Wille in noi, un Wille relativo sottoposto alle forme dello spazio e del tempo, e alle leggi di casualità”. Ma proprio l’origine di ogni male scaturisce dallo stesso Wille: “Questo è il suo peccato: di qui scaturisce il male”. Il Wille spinge per essere ed è il “‘Voglio vivere’ a diventare satana. La vita è opera demoniaca. […] Perché il Wille come infinito non può appagare se stesso sotto questa o quella forma, dove trova sempre un limite. Prendere dunque una forma è la sua infelicità; il suo peccato, la sua miseria è nel dire: ‘Io voglio vivere’. […] La morte è la fine del male e del dolore, è il Wille che ritorna se stesso, eternamente libero e felice. Vivere per soffrire è la più grande delle asinità”.
Nelle riflessioni di Schopenhauer si sente un eco di Leopardi, che sostiene che la vita sia tedio e dolore, l’unico rifugio sta nella morte. In realtà i pessimismi dei due autori non si limitano a questo e, sebbene Schopenhauer e Leopardi possano risultare nient’altro che due pessimisti incalliti, in realtà dimostrano con oggettività il male dell’esistenza. Infatti Leopardi, ne La ginestra, poesia assimilabile al lascito testamentario del poeta, enuncia la sua teoria definita dai critici “utopia solidaristica”: sebbene abbia sempre preso in giro “le sorti magnifiche e progressive” e abbia criticato la malvagità e la stupidità umana nelle sue Operette Morali, Leopardi invita gli uomini ad unirsi in un sentimento di compassione, per far fronte al destino comune. “Leopardi produce l’effetto contrario di ciò che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. […] È scettico, e ti fa credente”.
Lo stesso Schopenhauer non si limita a rappresentare la vita come dolore, bensì ne Il mondo come volontà e rappresentazione, enuncia le vie per sconfiggere il Wille e raggiungere la noluntas. Nei suoi saggi brevi, come in L’arte di essere felici e in L’arte di conoscere se stessi, il filosofo fornisce ulteriori dritte per contrastare il dolore della vita. Innanzitutto bisogna essere coscienti del fatto che “ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo, la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata e quindi affinché ce ne liberiamo […] le gioie sono negative; che esse possano rendere felici è una follia nutrita e coltivata dall’invidia, poiché le gioie non vengono sentite in termini positivi, come accade invece per i dolori; sono dunque questi ultimi, con la loro assenza, che costituiscono il criterio di misura della felicità”. Come, infatti, sostiene anche Leopardi “La felicità non è altro che l’intervallo tra un dolore e l’altro”. L’errare alla ricerca di piaceri porta solo alla delusione, Schopenhauer, infatti, spiega che è bene tenere a freno la fantasia e pretendere poco: più si cerca un piacere e più non arriverà.
È ciò che esprime la metafora del Sabato del villaggio di Leopardi: l’attesa del piacere, simboleggiato dalla domenica, si rivela qualcosa di effimero, l’uomo già si protrae verso i nuovi dolori, simboleggiati dal lunedì. Infatti Schopenhauer spiega che per essere il più sereni possibile si dovrebbe vivere a mezza via tra presente e futuro: chi vive solo di presente è un incosciente, chi vive solo in relazione al futuro, non sarà mai felice, poiché vivrà sempre nell’attesa di una felicità destinata a non arrivare mai.
Sia Schopenhauer sia Leopardi sono state figure piuttosto solitarie, probabilmente per il loro schietto e diretto modo di descrivere la realtà. Tuttavia Schopenhauer sostiene che conoscere se stessi, assecondando la propria personalità, è un altro modo per essere felici. Solo colui che conosce se stesso potrà davvero ritenersi felice. Per questo motivo Schopenhauer vive gran parte della sua vita da solo, dedito a quella “vita intellettuale”, che per lui non era solo un lavoro o uno stile di vita, bensì rappresentava tutto il suo essere.
“Ho investito tutto nella mia esistenza spirituale. Non posso perciò meravigliarmi che la mia vita personale sembri incoerente e in sé disordinata: è come la voce di ripiego nell’armonia […]. Ciò che inevitabilmente manca alla mia vita personale mi è restituito in un altro modo con il pieno godimento del mio spirito e della mia aspirazione secondo l’orientamento innato. […] Mi sono proposto di dedicare il resto di questa vita transeunte unicamente a me stesso”.
Per questo motivo fugge dal matrimonio, sente di non poter mai rendere una donna felice, poiché il suo primo pensiero sarà sempre rivolto allo studio e all’esercizio della sua vita intellettuale. “È assolutamente impossibile che io sia felice con una donna che non è felice con me: ora, dato che io vivo soprattutto nel mondo dei miei pensieri e non amo svaghi e società, e poi non sempre sono di buon umore, c’è ben poca speranza che una donna con me si senta felice. Poiché vedo che l’autentico scopo della mia vita oltrepassa i confini della mia esistenza personale, la quale è per me soltanto il mezzo per conseguirlo, non appena la mia persona e la mia proprietà non stessero a mia completa disposizione, ma qualcun altro ne avesse parte, allora la cosa più importante e meno comune sarebbe sacrificata a quella comune”.
Il vivere, però, in solitudine, comporta un altro vantaggio: il non aver paura della morte. Per Leopardi la morte rappresenta la cessazione dei dolori della vita e, nella sua visione materialistica, il ritorno della materia alla materia. Ma anche Schopenhauer ritiene che per un solitario la morte non sia da temere: “Ho sempre sperato di morire bene. Chi infatti ha vissuto per tutta la vita in solitudine, saprà affrontare meglio di altri questa faccenda solitaria […]. Io terminerò i miei giorni nella lieta consapevolezza di fare ritorno là da dove sono venuto con tanti talenti in dote, e di avere compiuto la missione”.
Perciò i due rinomati pessimisti, in realtà ci concedono una visione realistica del mondo e della vita e, nonostante sia noto che la vita sia dolore e che i piaceri sono soltanto momentanei, ci sono modi e stili di vita che ci permettono di vivere con più leggerezza questo tedio che è la vita.
Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, Ibis Editore
Arthur Schopenhauer, L’Arte di conoscere se stessi, Adelphi editore
Arthur Schopenhauer, L’Arte di essere felici, Adelphi editore