Una storia breve

di Rebecca Giusti

 

Una voce le diceva sempre, sibilando come una sirena stonata: “Non conti niente, non sei nessuno, nessuno ti desidera piccolina”. Allora lei si guardava intorno e urlava: “Non sarai mai me, non sarò mai te”.

La ragazza crebbe e la voce si spense come un fuoco su cui buttano una grande coperta bagnata, piano piano ma azzerandosi, come se non ci fosse mai stata, né in quel momento né mai. La ragazza tornò a prendere fuoco come una volta, ma senza bruciarsi come faceva prima, ma scaldando chi le toccava le mani.

(La foto ritrae una bambina che gioca nella fontana che si trova in piazza Maidan a Kiev, 15 anni fa).

Il 2021 edulcorato

di Abramo Matteoli

Plop!

Stappo una bottiglia, me ne verso un po’. Mentre le bollicine chiare iniziano a percorrere il calice penso che è proprio una bella occasione. Poi, tutto sommato, me lo merito proprio.

«Per cosa beviamo?» chiede, giustamente, la voce fuori campo.

«All’anno nuovo. Brindiamo all’anno nuovo» rispondo io; potrei sembrare in ritardo, ma non lo sono per niente. Gennaio è un mese di uggiosa nostalgia, troppa per esser considerato incipit di un nuovo tempo. Gennaio è la pagina bianca che si frappone tra i capitoli di un libro, quella che ci permette di respirare, mentre sbagliamo a scrivere la data e ci permettiamo una finestra di distrazione. Si, gennaio è proprio affollato, c’è troppo su cui riflettere, troppo da promettersi, un freddo cane, e il calciomercato – come se non bastasse.

Arriva, di questi tempi, un momento in cui ti rendi conto che è febbraio. È lì che comincia il nuovo anno, rinnovi la tua consapevolezza che il tempo vola, sbuffi, e un po’ ti prendi male. Mancano meno di due settimane a San Valentino, Sanremo insidia le chiacchere, il tempo per bighellonare giunge al termine. È l’istante in cui la pagina bianca lascia spazio al capitolo nuovo, che inizia perché deve, impreparato, di malanimo.

Ad essere onesto, però, festeggio soprattutto per un’altra ragione. Si è appena concluso un periodo d’affanno indaffarato. E io, posso finalmente riprendere a respirare.

Nonostante mi consideri perfettamente nella media, utilizzo parecchio il mio arrembante telefono per scorrere chilometri di home page. Sia TikTok o Instagram non importa, il dove non interessa, ma interessa il cosa mi propinano quei meravigliosi algoritmi dalle uova d’oro. Quando è iniziato formalmente l’anno nuovo, infatti, sono stato inondato da una moltitudine innumerevole di video-recap atti a consegnare l’anno appena tramontato alla memoria, impacchettandolo per bene. Sapete benissimo a che video mi riferisco, quelli colmi di ricordi felici, intensi tramonti, amici perfetti, sorrisi giovani – che “ricordano” l’anno che è stato. Video che emanano un’aura spensierata, che ti fanno sentire in colpa di esserti svegliato col piede sbagliato.

Ne vidi uno, due, cinque. Iniziai a odiarli. Dieci, venti, cento.

Colori sgargianti, musica angelica, volti allegri, capelli al vento, sguardo al futuro, saudade speranzosa. Sembravano prodotti con lo stampino. Scorrevo e scorrevo ancora. Non c’era mica scampo. Il mio pollice tremava combattendo lo schermo sporco, fuggiva (invano) via dal paragone, che come accade sovente, ne uscì comunque vincitore. Leggi tutto “Il 2021 edulcorato”

Vita in pericolo

Analogie dei pensieri di Massimo Pericolo con filosofi greci, letterati italiani e autori tedeschi

di Rebecca Giusti

Epicuro nacque a Samo nel 344 A.C. Egesia di Cirene visse nel quarto secolo A.C. Nietzsche nacque a Rocken nel 1844, in Germania. Leopardi fu uno scrittore e poeta che nacque a Recanati nel 1798. Alessandro Vanetti, in arte Massimo Pericolo, è nato a Milano nel 1992.

Epicuro non temeva la morte. Questo autore e pensatore sosteneva che quando un uomo cessa di esistere, si interrompevano anche tutti i suoi mali, terminava la sofferenza, l’infelicità, così come le gioie terrene e i piaceri di cui aveva fatto esperienza negli anni passati in vita. La morte è assenza. Assenza di tutto: non va temuta, ma accolta con pazienza e serenità. Attenzione: lui non sosteneva che fosse meglio la morte della vita, ma aveva la profonda idea che la prima non fosse un dolore, né una questione su cui passare decenni ad angosciarsi, un mostro anomalo e terribile da temere. Dopo la vita, tutto cessava, nel bene e nel male.

«Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi.»
(Epicuro, Lettera sulla felicità )

“Io penso che comunque vivere è peggio che non vivere. Cioè se non esisti, che cazzo te ne frega, capito?”

(Alessandro Vanetti, intervista per Noisey Italia)

I piaceri della vita sono spesso irraggiungibili, c’è solo tanta sofferenza e dolore che armonizza tutto il corso della vita di un uomo. Come un sottofondo musicale, ciò che viviamo non ha senso, ma nel background si sente sempre un debole suono che è quello del “tyche”: l’impersonale potenza del caso. Secondo questo filosofo dalla dottrina spietata e senza parti dolci, che cerchino di smussare il suo cinico punto di vista sull’universo, il fine supremo di tutti coloro che si trovano su questa terra a vivere (chi per condurre un’esistenza borghese e normale, chi per spiccare il volo verso la fama, il denaro, la ricchezza interiore) è la noncuranza tra la vita e la morte. Ci troviamo, come pedine svampite e immobili nella condizione di incoscienza sul reale motivo per cui esse siano state create, a passare del tempo sulla stessa terra divisa in molti paesi, con confini tracciati e lingue diverse. In ogni caso, dei tratti comuni ci fanno essere parte della stessa cosa: la noncuranza per ciò che ci succede, il male che proviamo, il tempo limitato che passiamo al mondo. Leggi tutto “Vita in pericolo”

Il giornalismo di ieri e di oggi

Un’intervista al giornalista de La Nazione Oriano De Ranieri a cura di Rebecca Giusti e Marina Senesi

Oggi vorremmo portarvi qualcosa di diverso da un articolo vero e proprio. Creeremo un giornale dentro al giornale, come se quello che scriviamo parlasse da solo della scrittura. Oggi sarà il testo stesso a presentarvi il giornalismo, dal punto di vista di un distinto signore che ha vissuto queste esperienze sulla sua pelle, trent’anni fa, e continua ad osservare ancora oggi con discrezione, con tutti i cambiamenti fenomenali che sono avvenuti, il mondo magico che è l’informazione.

Abbiamo fatto qualche domanda a Oriano De Ranieri, giornalista professionista dal 1979. Con un’esperienza lavorativa all’ “Avvenire”, giornale cattolico, ha lavorato anche a Milano, poi a Lucca a “La Nazione”. Laureato in Lettere moderne e in Scienze religiose, è in pensione da 15 anni. Scrittore di tre libri dedicati a Puccini: “Giacomo Puccini, luoghi e sentimenti, “Le donne di Puccini” e “La religiosità di Puccini, la Fede nelle opere del Maestro”.

Inizialmente abbiamo fatto una videochiamata informale con Oriano, il quale con piglio deciso e battute svelte e puntuali, ci ha spiegato che cosa è stato il suo lavoro, cosa ne pensa del mondo di oggi, la sua visione sulla vita dopo tanti anni passati a relazionarsi con carta, penna, macchine da scrivere e notizie da acchiappare come si colgono le farfalle, col retino e molto velocemente. Ci ha parlato di quando alla redazione della “Nazione” con la prima macchina da scrivere che arrivò nel complesso di uffici, fecero le due di notte per cercare di capire e scoprire ogni trucco di quel marchingegno ticchettante, un incrocio tra una sveglia che fa “clac clac” e una personcina magica che ti scrive ciò che detti. Ma ora vi lasciamo alla sua voce, che, leggendo dall’e-mail che ci ha mandato con le risposte alle domande che volevamo porgli, traspare da tutte le lettere di cui sono composte le sue frasi.

  • Tra i vari giornalisti che lavoravano ai suoi tempi, che aria si respirava e che relazioni esistevano tra di voi? Lei aveva un buon rapporto con i colleghi o era presente quella competizione che si vede spesso nei film, con la caccia allo scoop o all’articolo più riuscito che spesso sovrasta i rapporti umani? Lavoravate insieme come un team o c’era tensione, malizia fra di voi? Qual è stata la sua esperienza?

Alla Nazione ero un mediatore. Il caposervizio che proveniva dal Tirreno (allora non c’erano giornali on line) non voleva contatti con il giornale dove lavoravo io. Avevo formato un’associazione di giornalisti de La Nazione e del Tirreno che dopo poco fallì perché c’era una concorrenza sfrenata, incoraggiata dai capi di Firenze e Livorno. Una ricerca continua di scoop: in provincia allora non c’erano addetti stampa e le notizie (a parte quelle del Comune, dei carabinieri e della polizia) te le dovevi cercare. Se il giornale concorrente aveva una notizia grossa che tu non avevi erano guai: arrivava subito la telefonata dei capi di Firenze con rimproveri, anche forti. Ora non è più così. I “buchi” ovvero le notizie che ha un giornale e l’altro no, si danno e si prendono. Leggi tutto “Il giornalismo di ieri e di oggi”