di Sara Caliolo
Fabrizio Cristiano De André, noto semplicemente come Fabrizio De André nasce il 18 febbraio 1940 a Pegli (Genova) da Luisa Amerio e Giuseppe De André, professore in alcuni istituti privati. Faber (così lo ha soprannominato Paolo Villaggio, uno dei suoi più cari amici) è stato uno dei più grandi cantautori italiani di tutti i tempi: ribelle, coraggioso e sincero, egli ha scritto testi di grandissimo valore, guadagnandosi il riconoscimento di “poeta’’ da parte della critica letteraria italiana.
Le sue canzoni, infatti, sono da sempre considerate poesia e il paragone a questa non è esagerato: esse sono state inserite in varie antologie scolastiche di letteratura già dai primi anni settanta e sono, ancora oggi, un classico esempio di struttura poetica; la forma espressiva utilizzata da De Andrè è tipica dei poeti: leggendo i suoi brani si può, infatti, notare la frequente comparsa di enjambements, rime, assonanze, allitterazioni, onomatopee, similitudini e metafore, ritmi e pause particolari. Non a caso, inoltre, De Andrè è l’artista con il maggior numero di riconoscimenti da parte del Club Tenco e la sua popolarità a livello artistico ha spinto alcune istituzioni, dopo la sua morte, a dedicargli vie, monumenti, piazze, parchi, biblioteche e scuole.
Fabrizio si avvicina alla musica grazie ai genitori che, constatata la particolare predisposizione del figlio, durante la sua adolescenza, lo spingono a prendere lezioni di violino e poi di chitarra, avvicinandolo, così, al mondo del country e del jazz. Negli anni del liceo, identificato già da tutti come un ragazzo ribelle e controcorrente, De André comincia a occuparsi di “spettacolo” e matura consapevolmente il suo pensiero verso l’anarchismo (non ha neanche diciotto anni quando si iscrive alla federazione anarchica).
Dopo un periodo di vita abbastanza allegra e agiata, all’inizio degli anni ’60, comincia a comporre: le sue prime canzoni sono episodi separati che, però, nel corso della sua carriera, si congiungono consapevolmente e professionalmente nella sua idea forte e decisa della vita.
Fabrizio muore l’11 gennaio 1999 a Milano, stroncato da un male incurabile, e a suoi funerali si presentano più di diecimila persone. Ho potuto scoprire la sua musica solo dopo la sua morte e sono rimasta piacevolmente colpita dalla sua trasparenza e dalla sua profonda sincerità nell’esprimere le sue idee e i suoi pensieri con toni ironici ed espressività sonore che si adattano alla delicatezza dei temi trattati. I suoi brani sono capaci di trasmettere, attraverso un ritmo semplice e di facile assimilazione, le sensazioni vissute dall’autore e di rappresentare, in maniera pura e oggettiva, la situazione e la società di quel tempo.
La canzone che, secondo me, racchiude tutti i personaggi e tutti i temi trattati da Fabrizio è Volta la carta: non solo descrive la realtà e le varie circostanze, non solo critica coloro che giudicano e pregiudicano i cosiddetti “sventurati”, ma riassume tutte le figure protagoniste dei suoi album, narrando, in pochi versi, le loro storie. La cosa che mi ha colpito di più è la semplicità con cui esprime le loro disavventure, le loro disgrazie: la musica che accompagna le parole, infatti, è allegra, ha un ritmo incalzante e piacevolmente ripetitivo, quasi a dimostrare che, in fondo, è soprattutto nei momenti più tristi che si sente la necessità di vedere tutto sotto una chiave più serena, sotto una luce diversa. Ed è proprio quello che mi ha trasmesso De Andrè con Volta la carta: anche in questo caso, come anche in altri brani, lui non descrive le loro storie tristi con melodie malinconiche o suoni lenti, ma le rappresenta sotto una chiave allegra, quasi spensierata. Perché, in fondo, credo che sia proprio questo ciò che lui vuole trasmettere alle persone che ascoltano questa canzone: ci sono diversi modi di affrontare le situazioni più difficili e il migliore tra questi è cercare di farlo tentando di trovare una forza interiore in grado di alleggerire almeno un po’ la sofferenza.
Lui non chiede pietà per gli “sventurati”, ma solo comprensione (come in La ballata di Michè); non pretende che tutti ne parlino bene, ma invita a riflettere, a prendere esempio da loro e, in questo caso, invita a fare come Angiolina che, nonostante abbia dovuto affrontare una serie di delusioni d’amore e di periodi difficili, alla fine riesce a coronare il suo sogno di sposarsi (“paga il riscatto con le borse degli occhi piene di foto di sogni interrotti [..] ritaglia giornali, si veste da sposa, canta vittoria”).
Volta la carta è un brano che non affronta solo il tema della guerra, ma anche quello della speranza, del coraggio di andare avanti; è un vero e proprio inno alla vita: bisogna imparare a “voltare la carta”, anche nelle situazioni in cui sembra impossibile farlo, per poi imparare a descrivere quei momenti bui senza paura e con la forte consapevolezza di averli affrontati e di averli, finalmente, vinti. Angiolina, infatti, è una ragazza semplice e, forse, ingenua (tanto che “chiama i ricordi col loro nome”) che, nonostante questo suo carattere (probabilmente sottovalutato), è riuscita ad affrontare, seppur a modo suo, una vita fatta di piccoli e grandi dolori (è cresciuta in mezzo ad una guerra e in mezzo a tutte le disastrose conseguenze che questa ha lasciato) e adesso, nonostante tutto, non parla del suo passato come una pressione insopportabile, ma come un arco di tempo ormai concluso. Per questo, poi, è in grado di dare un senso all’esistenza passata, “finendo”, così, “in gloria”.
Fabrizio non ha paura di mostrare il suo pensiero e affronta (basandosi anche sulle proprie esperienze), attraverso la sua musica, i temi più discussi e caratteristici del tempo, quali: il conflitto con l’ambiente borghese (incarnato soprattutto nella figura del padre e che determina il suo classico ribellismo giovanile mai superato) e il rapporto, invece vicino, con la campagna (dove visse a lungo da piccolo e dove volle tornare); la ricerca dell’emarginazione vista come un’esclusione totale e assoluta dalla società e dalle convinzioni dominanti (spesso canta di guerre e rivoluzioni, mostra pietà per gli umili e si schiera dalla parte dei pregiudicati) ed il disprezzo, quindi, per le opinioni dominanti di quel tempo. Opinioni che riguardano anche l’amore (in tutte le sue forme), per lui sempre sfortunato e caratterizzato da un finale triste scritto nelle sue stesse premesse. Per De Andrè l’amore è come la rivoluzione: ne si diventa coscienti a occasione perduta e ciò che si trova in mezzo a questo sentimento è solo una un periodo di tempo confuso che porta, poi, a conclusioni pericolose.
Il suo impegno sociale coniugato alla canzone d’amore e il suo senso di ribellione contro la società coniugata al carattere romantico delle sue ballate lo avvicinano per certi versi all’Esistenzialismo, una corrente filosofica e letteraria sorta in Francia subito dopo la seconda guerra mondiale che influenzò un’intera generazione attraverso le canzoni, la scoperta di compositori-cantautori, nonché l’aiuto di poeti che scrissero i testi per molti cantanti divenuti poi celebri. Fabrizio fa a suo modo parte di questa corrente: le sue, infatti, non sono solo canzoni o album, ma “opere musicali” (definite così da Morgan, suo grande estimatore) che includono un grande impegno sociale, una grandissima sensibilità, e una innata capacità tecnica sia in campo musicale che in quello poetico letterario.