di Rebecca Giusti
Questa foto è vecchissima, piena di polvere addosso se fosse cartacea e non dentro una cartella di file. Nessuno la considera mai, la nomina, la interpella o la cita in discorsi di alcun genere, come si fa con le foto d’élite. “Ti ricordi la faccia che avevi in quella? Assurdo, sembravi la Marta!”, “Quanto si stava bene eh, guarda ho ancora la foto di noi stese al sole come delle lucertole, strinate e con la pelle secca come l’aria che si respirava in quel momento!”. Nessuno che dica mai niente su di lei.
Eppure lei c’è. Tornavo da un compleanno, da sola, nella città spenta e triste come a gennaio è qualunque cosa lasciato esposto alle temperature esterne. Tutto si rattrappiva cercando di scaldarsi un po’ mentre camminavo, sembrava che le mattonelle fossero più vicine per infondersi un po’ di calore alle membra e cercare di farsi forza. La luce si dipanava come un filo che cerca di tenere tutto insieme, senza permettere a niente di fuggire al buio, nell’ombra invernale pronta a inghiottire parti di strada, uomini, coppie che si attardano dopo cene di lavoro e tornano all’auto, senza tregua, senza pietà per i malcapitati che spariscono come la condensa che mi usciva dalla bocca respirando. La strada stava a guardare. Guardava i miei piedi che tacchettavano sulle mattonelle impaurite, con voglia di stare vicine, ma irrimediabilmente congelate nella posizione in cui si trovavano. Guardava anche i lampioni, che dall’alto spiavano i movimenti furtivi degli ultimi, che si attardavano a tornare in casa, un po’ perché la spinta a stare fuori di sabato per scappatelle a comprare bevute ghiacciate e flirtare con qualcuno è forte nonostante il clima ostile, e un po’ forse perché anche loro erano un po’ stregati: dalla strada, dai lampioni, dalle cose inghiottite nell’ombra.
Camminai per dieci minuti buoni, non incontrai nessuno a parte due uomini con un bicchierino pieno di liquido scuro fuori da un bar che parlavano di cosa avrebbero fatto lunedì, e sentivo solo le mie scarpe battere in terra ritmicamente. Feci una foto, che poi nelle milioni che scattiamo sempre se ne va persa, forse dimenticata, archiviata, per lasciare spazio a momenti più dinamici, ricchi di avvenimenti stremanti o colmi di adrenalina, che hanno un posto di rilievo dentro di noi.
Nonostante tutto, questa foto mi fa bene e riguardarla è come spargere un balsamo sopra le ferite aperte dall’avventura che si vive sempre: ci fa sentire vivi, ma un po’ ci consuma. Non importa quanti momenti comporranno una giornata, un mese, gli anni, i decenni del mondo, ci saranno sempre istanti di silenzio, oscurità, ombra che a lungo andare, fanno bene. Forse camminare su una via scura da soli, senza pensare a niente, guardando la pioggia che brilla sui muretti illuminati dalla luna, è un intermezzo alle grandi, pesanti, tremende emozioni che proviamo sempre, che dicano siano le più importanti. Se quelle cruciali fossero invece le più velate?
“Adesso non provo niente, sono solo tranquilla”. Nel mezzo di una tempesta con la spesa in mano, osservando piangendo l’aurora boreale, nuotando in una distesa di mare blu enorme con la paura di non riuscire mai più a vederne la fine, penseremo anche al niente, proveremo qualcosa perché in passato siamo anche stati solo tranquilli e abbiamo visto strade buie percorse da ragazze col telefono in mano che facevano foto a ciò che gli passava accanto, con le mani un po’ gelate dal freddo.