La ricetta epicurea per la felicità è ancora valida?
di Alice Mazzoncini
“Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro”. Così comincia la Lettera sulla felicità, originariamente conservata da Diogene Laerzio con il titolo di Lettera a Meneceo, dove Epicuro invita il destinatario, ovvero il suo discepolo, a riflettere su alcuni temi filosofici e ad attuarli nella quotidianità: la propensione alla felicità, l’esistenza degli dèi, la ricerca del piacere e la sopportazione del dolore sono temi interconnessi e giungono tutti al concetto di morte, “il più atroce di tutti i mali”, poiché la sua presenza implica la nostra assenza.
Lo scopo della felicità, dice Epicuro, è quello di liberare l’uomo da ciò che impedisce il raggiungimento di questa. Poi ci invita a conoscere le cose che fanno la felicità affinché si possa vivere una vita serena.
Il primo passo per raggiungere la felicità è “considerare l’essenza del divino materia eterna e felice”, vedere negli dèi un collegamento con la felicità, pur essendo essi disinteressati alle vicende umane. Prosegue con il secondo passo: “abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire e la morte altro non è che la sua assenza”, il suo intento è quello di liberare gli uomini dalla paura della morte dicendo che tanto questa non la incontreremo mai. Egli va avanti dividendo in due tipi i desideri umani, quelli naturali e quelli inutili, fra i naturali solo alcuni sono necessari, di questi alcuni sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.
Il saggio deve riuscire a capire i suoi bisogni autentici per vivere nella perfetta felicità, senza diventare schiavo dei suoi piaceri. Egli sa anche che è vana opinione credere il destino padrone di tutto, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro, che è libero.
“La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali”: Ovvero il saggio è colui che sa distinguersi dalla massa, ovvero quella cerchia di persone che segue un’ideologia per arrivare al successo o alla fortuna e che assume potere e consensi solo perché costituisce la maggioranza, pur avendo un’opinione assolutamente sbagliata riguardo una questione; colui che è saggio sa anche che la fortuna senza la ragione e la coscienza non conta niente: “è meglio essere senza fortuna ma saggi, che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato”.
Dopo questa lettera, Diogene Laerzio riporta le quaranta Massime Capitali, ovvero un compendio della dottrina epicurea sotto forma di aforismi, più immediati per le persone meno colte. Aggiunge infine una raccolta, chiamata Gnomologium vaticanum epicurerum, contenente frasi di conoscenza etica, giustizia, esperienze di vita, trattati nel modo più originale e attuale possibile anche a distanza di molti secoli.
Questa concezione filosofica, negli anni successivi, fu portata avanti dal celebre poeta latino Lucrezio, il quale, sulle basi di questa dottrina, compose il De rerum natura, con l’intento di guidare l’umanità verso il raggiungimento della cosiddetta atarassia, ossia quello stato di serenità, privo di turbamenti. È interessante e straordinario quindi, come a distanza di secoli, questo pensiero rimanga così attuale, soprattutto attraverso la semplicità con cui è scritto, che lo rende una sorta di manuale di vita, da sfogliare ogni tanto, per ricordarci come sfruttare al meglio la nostra esistenza, che è mortale.
Epicuro, Lettera sulla felicità, Einaudi editore, trad. it. Torino 2012, pp. 69.