di Martina Baroni
In questi giorni di reclusione forzata, tra le cattive notizie del telegiornale e la malinconia della solitudine ho deciso di ricavare un piccolo spazio giornaliero alla bellezza, così da fare in modo che il tempo passi un po’ più in fretta. A cose normali di questi tempi non mi sarei mai potuta permettere di dedicare un pomeriggio alla visione di un bel film o alla lettura di un libro, ma perché non approfittarne adesso che di tempo ce n’è così tanto? In ogni caso mi sarebbe piaciuto poter trovare qualcosa che conciliasse questo mio scopo al programma scolastico che, da maturanda, devo sforzarmi di seguire e approfondire il più possibile…
Non del tutto a caso mi sono dunque imbattuta nel capolavoro cinematografico Loving Vincent (tradotto in italiano come Con affetto, Vincent). Si tratta di un film diretto e sceneggiato da Dorota Kobiela e Hugh Welchman nel 2017 e prodotto dalla BreakThru Production in collaborazione con la Trademark Films, sulle fondamenta di una meravigliosa collaborazione polacco-britannica. Il lungometraggio, della durata di circa un’ora e mezza, spicca per il suo essere interamente realizzato grazie all’animazione di una serie di più di 60.000 tele completamente dipinte a mano da un gruppo di più di 100 artisti provenienti da tutto il mondo.
Precursore dell’altro capolavoro sull’artista Olandese realizzato l’anno seguente, Sulla soglia dell’eternità, Loving Vincent si approccia con metodi e linguaggi completamente diversi alla storia del pittore, quasi al punto da averci ben poco a che fare. Una prima sostanziale differenza risiede nel fatto che, sebbene sia incentrato sulla storia di Van Gogh (soprattutto nel periodo prossimo alla sua morte), il film non tratta di avvenimenti facenti parte della vita dell’artista, come avviene invece nella pellicola del 2018, bensì degli eventi narrati che si svolgono un anno dopo la morte di Vincent, cominciando ad Arles nel 1891…
In un misto tra realtà e finzione, una lettera di Vincent ritrovata per caso nella vecchia casa del pittore e destinata all’adorato Theo diviene il pretesto per un viaggio del giovane Armand, figlio del postino Joseph Roulin, alla ricerca del minore dei Van Gogh. Ripercorrendo la storia del pittore attraverso i racconti dei vecchi amici, dei conoscenti e dei semplici “osservatori”, Armand ha modo di appassionarsi al mistero che avvolge la morte del vecchio amico del padre, arrivando poco a poco ad apprezzarne la personalità più di quanto non avesse mai fatto quando ancora era in vita.
Rappresentata attraverso svariati flashback in bianco e nero dalla magnifica plasticità, la storia di Vincent Van Gogh emerge in uno scenario dominato dai colori ad olio, dalle pennellate e dal continuo movimento grazie alle parole di chi lo ricorda (perlopiù con immenso affetto).
L’intero concetto alla base del film può essere riassunto dalla primissima frase di apertura del lungometraggio, estratta da una delle numerose lettere indirizzate dall’artista al fratello Theo: “lasciamo che i nostri dipinti parlino per noi. Ti abbraccio fratello mio, con affetto, Vincent”. È infatti attraverso una meravigliosa sequenza di dipinti ad olio, trattati come dei frameworks di animazione bidimensionale attraverso la tecnica del rotoscope che viene raccontata l’avventura di Armand e, indirettamente, la storia di Vincent. È una storia di affetto, appunto, di corrispondenza e di dissidio interiore. È una biografia raccontata attraverso i ricordi dei personaggi (perciò di uno stesso fatto si hanno più interpretazioni diverse) e al contempo raccontata dai dipinti. Per Armand, una noiosa obbligazione diviene una profonda ricerca della verità in un mare di riflessioni, ricordi e dicerie e questo lo porta a crescere a livello umano.
Dal punto di vista della realizzazione, è geniale il modo in cui dipinti veramente realizzati dall’artista vengono riadattati e integrati nel film per diventare perfetti sfondi della storia, così come è meraviglioso il modo in cui i protagonisti dei ritratti di Van Gogh prendono vita grazie al lavoro degli animatori e degli attori che li supportano. Interessante, in particolar modo, come l’attore protagonista Douglas Booth riesca a dare vita e corpo al ritratto di Armand Roulin, facendo sì che un personaggio bidimensionale si sviluppi a 360º in pochissimo tempo.
A livello tecnico, il montaggio è decisamente geniale: il modo in cui le immagini e le scene sfumano l’una nell’altra con fluide dissolvenze, rese grazie alla plasticità versatile dei colori, è sublime. Il camerawork è vivace e la duplice funzione che assolve è veramente peculiare: alle volte fa sì che lo spettatore quasi si dimentichi che le scene sono rappresentate grazie a dei tocchi di colore, altre volte, invece, torna ad essere incredibilmente evidente che quello sullo schermo è in realtà un quadro. È magnifico come questo sapiente gioco di illusioni dipenda interamente da una semplice inquadratura. Inoltre, la dolcissima e calibratissima colonna sonora curata da Clint Mansell, nella quale spicca la meravigliosa “Starry starry night” di Lianne La Havas, completa il quadro incantevole del viaggio nelle sfumature della pittura di Van Gogh.
Infine, sebbene non per ordine di importanza, grazie ad un brillante gioco digitale di visualfx e ad uno storyboard fluido (nonostante la complessità di renderlo tale attraverso delle tele tradizionali), il lungometraggio denota assolutamente il raggiungimento di una nuova frontiera dell’animazione, allo stesso tempo ben lontana dai tempi della classica Disney ma ancora tradizionale; ispirata allo stop motion e alla plastilina ma bilanciata con il sapiente uso del digitale. Unico nel suo genere, “Loving Vincent” si presenta come un must per qualunque appassionato del pittore Olandese e si posiziona decisamente nella lista dei miei film preferiti e più consigliati.