Intorno a Vanità di Giuseppe Ungaretti
di Sara D’Amico*
Trovare un senso alla vita umana è il quesito metafisico per eccellenza, che ogni uomo si pone costantemente durante la propria esistenza. Anche solo pensare che la vita umana potrebbe non avere uno scopo, infatti, richiede uno sforzo che la coscienza umana non può a pieno compiere, come quando si prova a pensare al nulla, ma la nostra mente non può far altro che concretizzarlo in qualcosa, che sia un’immensa distesa bianca o uno spazio del nero più scuro.
La paura che da sempre l’uomo nutre non può che essere nascosta dalle attività che costantemente riempiono la nostra vita, in una battaglia infinita contro il silenzio, che al contrario risveglia i pensieri sgraditi, gli echi delle domande immortali che da sempre percorrono inesorabili le coscienze umane nel fiume della storia. Prefissarsi traguardi, concentrarsi sulla propria storia dove tutti siamo protagonisti, indugiare nel pensiero che le decisioni che stiamo prendendo e che prenderemo facciano parte di un progetto più ampio, che trascende le nostre volontà, sono tutti palliativi che ci impediscono di indugiare nel pensiero che la nostra esistenza possa davvero essere inutile.
Leggendo la poesia Vanità di Ungaretti, si viene in primo luogo colpiti dall’immagine di un sole immenso, che si erge fiero e potente sulle macerie, che sono l’emblema della distruzione che l’uomo causa a se stesso. La luce del sole è abbagliante, ferisce i nostri occhi improvvisamente e violentemente, perfino lo specchio d’acqua dove si trova il poeta sembra essere sorpreso da tanta lucentezza, mentre su di esso la luce prorompente dipinge l’ombra dell’uomo che rimane a guardarla. In quell’uomo che si specchia nell’acqua riconoscendosi, c’è l’umanità stessa, in un accordo con la realtà confortevole, che distrugge le difese, le trincee che l’uomo erige contro il mondo che lo circonda. Noi e quell’uomo ci abbandoniamo per un attimo alla consapevolezza di essere parte necessaria eppure insignificante del tutto, di far parte in quell’istante del sole, dello specchio d’acqua, del divenire senza fine che permea l’universo.
Finché l’ombra, cullata dal rantolio della corrente, non si infrange piano, e in quell’ombra spezzata l’uomo vede se stesso, la precarietà della sua vita che come un’impalpabile ombra è destinata a frantumarsi silenziosamente, a spegnersi, logorata e consumata dal tempo, una verità così lampante da non poter essere respinta. Noi e quell’uomo ci troviamo a fronteggiare l’incubo più spaventoso che possa essere concepito, la consapevolezza della caducità della vita, e non possiamo che provare spavento, terrore, di fronte al pensiero di non essere altro che docili fibre dell’universo, fragili creature consumate inesorabilmente dal tempo.
Eppure la luce del sole brilla ancora alta nel cielo, l’acqua scorre placidamente, nulla è mutato, anche l’ombra si è ricomposta ordinatamente nello specchio d’acqua. Non è un contesto terribile quello in cui ci troviamo, il tumulto interiore che ci ha attraversati repentinamente non ha scosso né turbato l’armonia che ci circonda. L’uomo non può far altro che abbandonarsi ad un dolce naufragio, nell’accettazione necessaria della verità profonda dell’esperienza umana. Ed è proprio nel lasciarsi cullare, consumare lentamente dal divenire, permettendo al tempo di levigarlo come un sasso di un fiume, in quest’accettazione necessaria di una dolorosa ineluttabile verità, l’uomo può raggiungere secondo Ungaretti l’unica rara felicità a cui può aspirare.
Sara D’Amico frequenta la classe III H del LiceoClassico Giulio Cesare di Roma