di Lucia Barsocchi
“Il discorso sull’origine della disuguaglianza” è un breve saggio di Jean-Jacques Rousseau pubblicato in Francia nel 1755. Nel 1750 l’Accademia di Digione aveva proposto la questione di quale fosse l’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini e se essa fosse autorizzata dalla legge naturale. Rousseau formulò la sua risposta tra il 1753 e il 1754; nel 1755 il suo “discorso”, anche se non ottenne il primo premio, suscitò molto scalpore.
Nella prefazione Rousseau afferma che per comprendere il senso della disuguaglianza tra gli uomini deve essere compreso lo stato di natura dell’uomo nella sua originarietà, cioè, i due principi che precedono la ragione: “Credo di scorgere due principi anteriori alla ragione, di cui l’uno interessa fortemente al nostro benessere e alla nostra conservazione, l’altro ci ispira alla ripugnanza naturale a veder perire o soffrire qualunque essere sensibile, e soprattutto i nostri simili”. In questo modo mette in luce che l’uomo è naturalmente dotato dello spirito di conservazione di sé stesso, quindi di sopravvivenza, e di pietà, cioè di un’innata empatia. Nell’introduzione distingue poi due tipi di disuguaglianze: la prima, che definisce “naturale o fisica, perché è stabilita dalla natura, l’altra che si può chiamare disuguaglianza morale o politica, perché dipende da una specie di convenzione ed è stabilita o almeno autorizzata dal consenso degli uomini”. La prima, quella naturale, è caratterizzata dalle differenze fisiche, mentre la seconda, quella morale, è caratterizzata dalle differenze e dai privilegi presenti nella società. La prima non ha motivo di essere spiegata, in quanto è imposta dalla natura, e l’obiettivo dell’opera è spiegare proprio l’origine della seconda. Per farlo Rousseau divide il testo in due parti: nella prima viene presentata la condizione dell’uomo nello stato di natura e il modo in cui, lentamente, se n’è allontanato. Nella seconda parte viene invece spiegato come dallo stato di natura siamo passati alla società civile. Dopo la prefazione e l’introduzione seguono la prima e la seconda parte del libro, in cui l’autore paragona gli esseri umani alle specie animali per farci capire meglio la sua visione della generazione che ci ha caratterizzato e ci caratterizza: “L’uomo – scrive – diventando socievole e schiavo, diventa debole, timoroso, strisciante, e il suo modo di vivere molle e effemminato finisce per snervare insieme la sua forza e il suo coraggio”. Come gli animali, che diventando domestici perdono la robustezza, il vigore, la forza e il coraggio di quelli selvaggi che vivono nella foresta, allo stesso modo tutti gli uomini che si concedono comodità in più rispetto a quelle offerte dalla natura degenerano fisicamente e moralmente.
Un altro aspetto che Rousseau sottolinea è il modo di vivere dell’uomo al suo stato naturale, diverso da quello dell’uomo civilizzato: la differenza sta nel fatto che l’uomo della società odierna passa buona parte del suo tempo a pianificare, organizzare e prevenire ciò che succederà, mentre l’uomo selvaggio non ha nemmeno un’idea del futuro: “la conoscenza della morte e il terrore di essa sono uno dei primi acquisti che l’uomo abbia fatto allontanandosi dalla condizione animale”. Nel suo stato di natura l’uomo non ha paura della morte in quanto vive in un eterno presente: la sua anima si abbandona al solo sentimento dell’esistenza attuale senza avere nessuna idea dell’avvenire.
Verso la fine della prima parte del libro si evidenzia poi un’altra differenza tra gli animali e gli umani, definendo l’uomo che medita “un animale degenerato”. Con questa espressione Rousseau spiega che gli uomini possono degenerarsi andando oltre i confini delimitati dalla natura, in quanto sono in grado di evolversi rispetto agli animali che invece non mutano mai nel tempo, non progrediscono: infatti “la natura comanda a ogni animale, e la bestia obbedisce. L’uomo prova la stessa impressione; ma si riconosce libero di consentire o di resistere”. Questo implica che gli umani sono in grado di agire in maniera autonoma e ciò li rende in grado di migliorarsi ed evolversi, ma proprio questa la caratteristica può determinare la loro decadenza: l’uomo selvaggio è costretto ad affrontare le difficoltà che quel preciso ambiente in cui vive presenta (il clima, gli altri animali, l’altezza degli alberi…) e tali bisogni e timori lo portano a ragionare, e quindi anche a degenerare. Il ragionamento conduce alla decadenza poiché esso ha portato al perfezionamento di sé stessi, che a sua volta ha portato a tutti i progressi e le corruzioni della civiltà.
La seconda parte del libro è introdotta da una frase d’impatto, che è praticamente la conclusione del suo ragionamento: “Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire ‘questo è mio’ e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile”. Rousseau è quindi convinto del fatto che l’origine delle ingiustizie sia nient’altro che la proprietà privata: questo, per l’appunto, rappresenta l’ultimo tassello di una serie di eventi che si sono verificati per arrivare a ciò. Tutto ebbe inizio quando una prima rivoluzione dette origine “all’istituzione e alla distinzione delle famiglie”, quando “ognuno cominciò a guardare gli altri e a voler essere guardato e la stima pubblica fu ricercata”. Con la nascita delle prime comunità, quali la famiglia, i selvaggi iniziarono a radunarsi in luoghi comuni, e quindi anche a far nascere i primi paragoni e confronti con gli altri, favorendo così l’instaurazione della dinamica del riconoscimento verso l’altro. In questo sviluppo gli uomini pretendevano ciascuno la stima dell’altro, considerandola come proprio diritto. Divennero schiavi dell’opinione altrui, basandosi sul giudizio degli altri.
Dopo aver distinto questa “prima rivoluzione”, Rousseau chiarisce cosa intende per degenerazione e come vi si arriva: “la metallurgia e l’agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione”: poi, “dalla coltivazione delle terre seguì necessariamente la divisione di esse. E dalla proprietà, una volta riconosciuta, le prime regole di giustizia”. La proprietà privata nacque dunque a causa dell’invenzione della metallurgia e dell’agricoltura, entrambe fondamentali per la formazione di una civiltà: per lavorare il metallo sono necessari tanti uomini, che devono essere sfamati da chi coltiva i campi. Inoltre le due attività si sostengono l’una con l’altra, perché il metallo permette un’agricoltura più produttiva, mentre maggior cibo permette a più persone di lavorare il metallo.
Verso la fine del saggio Rousseau ipotizza che la nascita del lavoro, e quindi della proprietà privata, sia all’origine delle differenze sociali tutt’oggi esistenti: “il più forte lavorava di più, il più destro traeva maggior rendimento dal suo lavoro, il più ingegnoso trovava i mezzi per abbreviare il suo lavoro”. Possiamo quindi dire che, con la divisione delle terre e la nascita della proprietà privata sono anche subentrate le differenze individuali di capacità ed ingegno, che permettono ad alcuni di produrre di più, ad altri di meno, generando così il divario tra ricchi e poveri, tra padroni e schiavi, che ovviamente Rousseau ritiene illegittima in quanto nessuno, alla propria nascita, ha scelto di avere o meno determinate capacità in particolari settori o attività.
Il libro si conclude quindi con ulteriori considerazioni interessanti, che forniscono vari spunti utili per riflettere sulla società odierna e sulla realtà in cui viviamo.