di Alessandro Rosati
Mercoledì sera si è giocata Napoli-Juventus, partita valida per decretare chi si sarebbe potuto gongolare con la Coppa Italia fra le mani. L’onore è stato dei Partenopei, che si sono aggiudicati la finale ai rigori, senza supplementari. È proprio da qui, da quei tempi supplementari eliminati completamente, che è partito il declino di un calcio ormai senza emozioni. Quei tempi supplementari sono un urlo strozzato in gola: l’urlo di chi, in piedi su un seggiolino dello stadio, sotto il sole cocente o sotto la pioggia battente, con la temperatura gelida e magari dopo 500 km di trasferta, avrebbe esultato per un goal della sua squadra. Quell’urlo rimasto fermo, immobile, bloccato nel tempo da Marzo, quello che tutti gli Italiani (e non solo) all’unanimità vorrebbero gridare.
È come l’urlo di Tardelli ai Mondiali dell’82, è la vena di De Rossi che si gonfia dopo un goal, o il rigore di Grosso nel 2006. Ma è anche il fallo di Iuliano su Ronaldo, la beffa dell’arbitro Moreno nel 2002 e il rigore di Baggio nel ’94. Ed è lo stesso identico urlo di un ragazzino per strada, dopo aver visto il suo pallone entrare in una porta improvvisata con due maglie o con un qualsiasi oggetto trovato sul posto.
È tutto questo: è il calcio nel suo aspetto più romantico e viscerale. Ieri sera niente di tutto ciò è andato in scena. Eccola, la morte del calcio. Adesso possiamo dirlo con certezza, dopo aver visto e subito il “calcio spezzatino”, ovvero le partite spalmate lungo tutti i giorni della settimana e del weekend; i match giocati il lunedì alle 15 e le finali di Supercoppa Italia negli Emirati Arabi e chi più ne ha più ne metta. La partita di ieri è stata soltanto l’ennesima dimostrazione di come il marketing e il profitto siano ormai più importanti dello sport stesso.
Ho scelto l’eliminazione dei supplementari come emblema, ma potevo benissimo fare riferimento al ben più scandaloso “pubblico virtuale” sugli spalti, degno nemmeno delle edizioni dei videogiochi dei primi anni 2000. Oppure avrei potuto scegliere le “strofe dimenticate” dell’inno di Mameli nell’immediato pre-partita, quando il cantante Sylvestre ha dimenticato le parole dell’Inno Nazionale durante l’esecuzione (e il problema è la pacchiana esibizione organizzata, non l’errore in sé). Insomma, nel rettangolo verde non è più il pallone a rotolare, ma i soldi.
L’industria calcistica è diventata un business milionario, una macchina inarrestabile. Nel tentativo di portare più calcio nelle case dei tifosi, si sono svuotate le curve degli stadi a favore dei followers sui social e opinionisti di ogni tipo hanno sostituito gli amici al bar e la “Domenica Sportiva”. Il “pallone” è stato disossato e privato della sua anima, sfruttato fino all’ultima risorsa disponibile.
Purtroppo ci troviamo di fronte ad un processo irreversibile, perché il calcio (non solo quello giocato) in Italia fattura per più del 30% del volume d’affari generato dallo spettacolo, con un totale stimato di 18 miliardi di Euro. Una mole di profitto del genere implica ovviamente altrettanti posti di lavoro tra staff tecnici, magazzinieri, giardinieri, giornalisti, fornitori e decine di categorie di lavoratori che sono coinvolti inevitabilmente nel business calcistico.
Per esempio, soltanto dalla vendita dei prodotti ufficiali (merchandising), la Juventus la scorsa stagione ha incassato 26 mln di euro e come lei tutte e altre big europee. Numeri da capogiro che suggeriscono ovviamente l’importanza dell’industria calcistica. Il business deve ripartire, perché è un’arteria di questo Paese. Il calcio però, quello vero, che fa emozionare nel vedere un campo di terra e sassi, dei bambini e un pallone…quel calcio forse non ripartirà più.