Gli scritti sul Giappone di Karl Löwith
di Viola Benedetti
Karl Löwith, uno dei più importanti filosofi del Novecento, vive in Giappone nella condizione d’esiliato tra 1936 e il 1941. Là si guadagna da vivere insegnando filosofia europea all’università di Sendai e intanto osserva, confronta e valuta quello che gli si presenta come un mondo alla rovescia rispetto all’Occidente e all’Europa.
Scritti sul Giappone presenta alcune differenze fondamentali tra la cultura della civiltà giapponese (orientale) e quella europea (occidentale). La prima differenza sostanziale tra questi due mondi concerne la storia fin dalle origini: la società occidentale era caratterizzata dalle polis greche (società tendenzialmente “democratiche”) guidate a volte da rappresentanti del popolo, in cui non vi era un capo assoluto; a differenza delle società orientali, caratterizzate quasi sempre e più lungo da una simile figura. Nell’opera I Persiani di Eschilo è possibile vedere questa differenza in quanto, nella guerra tra greci e persiani, la regina di Persia, che era stata sconfitta, chiese il perché di questa sconfitta, e le fu risposto che i greci non erano servi di nessuno, non erano cioè disposti a lasciarsi sottomettere. Ciò spiega perché, mentre l’oriente è più disposto ad obbedire, la storia dell’occidente può essere letta come la storia della progressiva conquista della libertà.
La guerra greco-persiana si collega al fatto che l’uomo occidentale ama fare esperienze e viaggiare mentre quello orientale si dedica alla meditazione. Il mondo occidentale appare individualista, perché valorizza la libertà individuale e le ricchezze individuali, e quindi si basa sul successo dell’individuo. Mentre la cultura orientale, e in particolare quella giapponese, si concentra su tutt’altro: sulla collettività, sull’obbedienza e soprattutto sul fatto che non viene data grande importanza alla vita come invece accade in occidente; anzi, per gli orientali la perfezione risiede nel vuoto, il vuoto è tutto, è l’essenza e il raggiungimento della pace. A differenza dell’uomo orientale, quello occidentale non riesce a concepire un vuoto senza una forma, un qualcosa che lo rappresenti concretamente.
Questa concezione viene evidenziata da Kitarō Nishida (1945), unfilosofo giapponese, considerato il fondatore della Scuola di Kyōto e il filosofo giapponese più importante del XX secolo, che ha contribuito a introdurre le dottrine del Buddhismo Mahāyāna nel pensiero filosofico occidentale.
Kitarō Nishida propone un’importante contrapposizione tra essere e nulla. Il pensiero occidentale non sa pensare al nulla senza concepirlo come qualcosa mentre il nulla supremo, o vuoto, della visione buddista è il grado più ricco e perfetto di essere. Un altro contrasto tra questi due mondi emerge nella sfera dei sentimenti e nei modi di pensare che riguarda soprattutto la sensibilità e gentilezza dei giapponesi. Essi sono infatti esseri sensibilissimi e la loro è “una cultura del sentimento”; il giapponese è immerso dentro di sé e nel proprio sentire. Per questo una sola parola avventata, un attimo d’ impazienza o uno scatto d’ira possono compromettere una relazione per sempre.
La gentilezza viene usata come “schermo” per proteggere i propri sentimenti e da quelli altrui. Non a caso, nelle transazioni troppo impegnative c’è un intermediario perché la cosa peggiore che possa capitare è proprio quella di perdere la faccia (si evita così lo scontro diretto). A questo proposito, bisogna osservare che i giapponesi non concordano con un detto di Goethe: “quando uno è gentile mente”. Una verità nuda e cruda, in Giappone, non la si esprime mai, ma questo non significa che la gentilezza sia una bugia, anzi, la gentilezza non è altro che un criterio per attenersi a ciò che noi occidentali chiamiamo verità. Per i giapponesi, infatti, la verità è una cosa pragmatica che può essere modificata a seconda della situazione concreta e il ritenere che la si debba esprimere manifestando la propria opinione personale è un segno di rozzezza ed egoismo perché in questo caso non si tiene conto dei sentimenti degli altri.
Un altro paradosso è visibile nella vita di tutti giorni. I giapponesi sono per Löwith i più primitivi tra popoli civilizzati e i più civilizzati tra i primitivi: questo si nota nelle case, nel cibo, nel modo di vestire, nell’arte e nel linguaggio. La maggior parte delle usanze, azioni e reazioni dei Giapponesi sono infatti agli antipodi delle nostre: ad esempio gli oggetti vengono maneggiati al contrario, l’ombrello da chiuso si tiene in mano per la punta e il manico puntato a terra, il colore del lutto è bianco invece che nero etc.
Altra caratteristica che differenzia il mondo occidentale con quello orientale è sicuramente l’importanza che viene data alla morte. Per i giapponesi la vita non ha importanza, al contrario della morte perché per loro l’onore maggiore è avere una targhetta con nome nel tempio. Inoltre, ci si chiede come un popolo cosi pacifico sia stato in grado di combattere con una certa aggressività e ferocia di fronte a grandi potenze: una delle risposte è senza dubbio il fatto che non danno alla vita lo stesso valore che gli diamo occidentali.
Questa concezione si rispecchia nel loro simbolo della morte: il fiore di ciliegio, che fiorisce per poco tempo per poi lasciarsi andare al vento e alla pioggia suggerendo un’idea di calma e di serenità. I suoi petali indicano infatti la fugacità dell’esistenza. Naturalmente, quest’atteggiamento di fronte alla morte cambia radicalmente la vita.
Inoltre, nella cultura giapponese, “Il bushido”è un codice di condotta e uno stile di vita, simile al concetto europeo di cavalleria e a quello romano, adottato dai samurai, cioè la casta guerriera in Giappone, e anche il ruolo della famiglia viene visto diversamente. All’interno della famiglia giapponese vi sono i membri più autorevoli che sono il nonno e il figlio primogenito. Nel caso non nascano figli maschi viene adottato un bambino che svolga questo ruolo.
I giapponesi identificano la famiglia imperiale come un dio. Infatti essa viene rappresentata da una grande casa da cui provengono le piccole case ovvero le famiglie. Questa struttura sociale e politica stupì molto il mondo durante la seconda guerra mondo: in fondo il Giappone era un popolo che non necessitava di una dittatura perché la famiglia imperiale era una divinità e quindi veniva spontaneo ad ogni cittadino sottomettersi all’imperatore.
La religione in Giappone ebbe conseguenze storiche rilevanti. Dal 1946 (poco dopo la conclusione della seconda Guerra Mondiale) l’imperatore Hirohito fu costretto a rinunciare alla pretesa di essere considerato una divinità scintoista e dal 1947 venne concessa a tutta la popolazione (a seguito anche di forti pressioni del Governo Americano) la libertà di religione.
Le più diffuse religioni in Giappone sono lo Scintoismo e il Buddismo. Lo Scintoismo (da “Shito”, ossia “via degli Dei”) venera un cosiddetto pantheon di “Kami” (“Dei”) che comprende varie classi di divinità, tra cui gli dei locali, i fenomeni naturali, gli esseri viventi ed i nobili antenati. Nelle cerimonie più importanti (strettamente legate ai cicli stagionali) vengono fatte offerte di riso, sakè, pesce, frutta e verdura alle varie divinità. Ogni fedele esprime la propria spiritualità in maniera personale, infatti nello Scintoismo non c’è una vera e propria gerarchia di culto, forse anche perché questa religione non ha un fondatore e le cerimonie mettono il fedele in contatto diretto con le divinità.
Il Buddismo, invece, assunse in Giappone un’elevata importanza nell’arco di poco tempo. L’ordine buddista prevedeva l’esistenza di laici e di monaci come due caste ben distinte fra loro, ma accomunate dalla fede in Buddha. I laici erano assoggettati all’osservanza di cinque fondamentali comandamenti. Se la loro condotta fosse stata conforme a tali comandamenti, avrebbero potuto raggiungere lo stato di “Nirvana”.
L’entrata nell’ordine monastico era preclusa ai soldati, a tutti coloro che svolgevano una qualsiasi attività per conto del re e a chi non avesse la completa disponibilità delle proprie azioni, come i minori di 15 anni, i servi, i debitori, i criminali, ecc.
Con l’arrivo del Buddismo nel sesto secolo la religione scintoista è rimasta viva e il buddismo ha cercato di integrarsi con quest’ultima considerando le divinità naturali come reincarnazione del Buddha.
Ad oggi comunque lo Scintoismo può essere considerata la religione nazionale nipponica, seguita dal Buddismo nonché da un vasto numero di religioni “minori” (oltre cento) che, soprattutto dal dopoguerra, hanno assunto sempre più importanza e che spesso sono veri e propri sviluppi delle principali fedi, ma con spiccati caratteri eclettici che raggruppano milioni di adepti.
Col tempo, il Buddismo ha trovato forme di adattamento alla cultura giapponese, soprattutto attraverso la scuola “Zen”. Nella meditazione Zen i samurai trovavano la concentrazione e il coraggio necessari per combattere. Così, una religione da sempre considerata “di pace”, divenne uno dei principali strumenti dell’addestramento dei guerrieri. Lo Zen consiste in aneddoti strambi con lo scopo di cercare risposte a quesiti insolubili.
Per concludere, si può notare che lo stile di vita giapponese comprende due modalità distinte: esso riceve infatti la sua forma delle tradizioni nell’antico oriente, ma anche dalle invenzioni del moderno occidente. Si tratta quindi, di una buona sintesi tra oriente e occidente.
Karl Löwith, Scritti sul Giappone, Rubbettino editore