di Rebecca Giusti
L’articolo due e tre della Costituzione sono legati da un rapporto molto stretto, che, a mio parere, li rende come facce della stessa medaglia. Nel primo menzionato si riconoscono i diritti invalicabili umani, impossibili da trascurare da parte di enti statali o terzi, perché facenti parte dell’individuo stesso e della sua dignità inviolabile (considerato in sé stesso o anche all’interno di formazioni sociali). L’obbiettivo del secondo è individuare e delineare la presenza opprimente, da un certo punto di vista erroneo (per esempio quello di possibili dittatori o uomini che vorrebbero abusare del loro potere a danno della comunità, scavalcando senza rimorsi i diritti fondamentali di ognuno di noi), necessaria e fondamentale dell’uguaglianza giuridica, sociale, economica, etnica del popolo. In un certo senso l’articolo due tutela anche il diritto che ognuno di noi ha di essere diverso dalla persona che gli sta vicino e da tutti coloro che gli stanno intorno, ci rende possibile l’essere chi siamo. Allo stesso tempo il tre esplicita il concetto che lo stato ha il dovere di considerare completamente uguale chi invece è differente (ed ha il diritto di esserlo). Quindi, mentre da una parte la costituzione ci mette in grado di esprimere il nostro io vietando eventuali climi soffocanti che non lo permettano, e di non esitare nel cercare di essere la migliore versione di noi stessi se abbiamo l’ardente desiderio di farlo, comunica anche che lo stato non deve solo tollerare questa posizione di libertà autentica e profonda dell’essere umano, ma deve diffonderla e sostenerla. Uno dei punti in comune di questi due articoli è che la repubblica italiana non viene messa in panchina con lo sguardo basso mentre l’essere umano gioca la partita della sua vita, ma è attiva e collabora nel tutelare tutti i membri dello stato. Il governo si deve impegnare nel far sì che ognuno partecipi con fervore al dinamismo sociale, economico e politico del paese rimuovendo tutti gli ostacoli che si parano davanti allo sviluppo di questa collaborazione tra stato attivo e giocatori del match (la popolazione). La partita che rappresenta l’esistenza di ognuno di noi deve essere regolamentata da diritti e doveri sanciti nella Costituzione italiana, e come in questo caso, da articoli come il due e il tre. Mi ha molto colpito la parola “personalità” che viene indicata come una delle parti migliori dell’essere vivi, che deve essere tutelata perché “tutti possano esprimere la propria all’interno di una formazione sociale”. Lo stato è e deve essere responsabile della nostra autodeterminazione, di come riusciamo a nuotare trovando la nostra dimensione personale, aiutandoci a individuare qualcosa a cui aggrapparci di giusto, morale, corretto. Non deve solo farci evitare con norme statiche e senza sentimenti eventuali pericoli, ma sostenerci mentre disegniamo la via che intendiamo percorrere, lasciando indipendente il soggetto nella ricerca del sovrano di sé stesso e di uno specchio esterno personificato in valori, ambienti culturali e gruppi in cui rispecchiarsi, un ramo a cui tenersi saldo in un mondo che muta continuamente. Chi è che ha detto che la Costituzione italiana è meno avanzata rispetto a quella americana, che prevede il diritto alla felicità per il popolo? In fondo, sono molti gli stereotipi sugli italiani che gesticolano e parlano molto, quindi mi chiedo se la felicità in fondo non sia questo: la ricerca del nostro io permessa e difesa, in un ambiente democratico che rifiuta la schiavitù delle costrizioni. Forse gli italiani sono solo bravi con le parole e questi articoli sono la perifrasi della parola “felicità”.