Un’intervista al giornalista de La Nazione Oriano De Ranieri a cura di Rebecca Giusti e Marina Senesi
Oggi vorremmo portarvi qualcosa di diverso da un articolo vero e proprio. Creeremo un giornale dentro al giornale, come se quello che scriviamo parlasse da solo della scrittura. Oggi sarà il testo stesso a presentarvi il giornalismo, dal punto di vista di un distinto signore che ha vissuto queste esperienze sulla sua pelle, trent’anni fa, e continua ad osservare ancora oggi con discrezione, con tutti i cambiamenti fenomenali che sono avvenuti, il mondo magico che è l’informazione.
Abbiamo fatto qualche domanda a Oriano De Ranieri, giornalista professionista dal 1979. Con un’esperienza lavorativa all’ “Avvenire”, giornale cattolico, ha lavorato anche a Milano, poi a Lucca a “La Nazione”. Laureato in Lettere moderne e in Scienze religiose, è in pensione da 15 anni. Scrittore di tre libri dedicati a Puccini: “Giacomo Puccini, luoghi e sentimenti, “Le donne di Puccini” e “La religiosità di Puccini, la Fede nelle opere del Maestro”.
Inizialmente abbiamo fatto una videochiamata informale con Oriano, il quale con piglio deciso e battute svelte e puntuali, ci ha spiegato che cosa è stato il suo lavoro, cosa ne pensa del mondo di oggi, la sua visione sulla vita dopo tanti anni passati a relazionarsi con carta, penna, macchine da scrivere e notizie da acchiappare come si colgono le farfalle, col retino e molto velocemente. Ci ha parlato di quando alla redazione della “Nazione” con la prima macchina da scrivere che arrivò nel complesso di uffici, fecero le due di notte per cercare di capire e scoprire ogni trucco di quel marchingegno ticchettante, un incrocio tra una sveglia che fa “clac clac” e una personcina magica che ti scrive ciò che detti. Ma ora vi lasciamo alla sua voce, che, leggendo dall’e-mail che ci ha mandato con le risposte alle domande che volevamo porgli, traspare da tutte le lettere di cui sono composte le sue frasi.
- Tra i vari giornalisti che lavoravano ai suoi tempi, che aria si respirava e che relazioni esistevano tra di voi? Lei aveva un buon rapporto con i colleghi o era presente quella competizione che si vede spesso nei film, con la caccia allo scoop o all’articolo più riuscito che spesso sovrasta i rapporti umani? Lavoravate insieme come un team o c’era tensione, malizia fra di voi? Qual è stata la sua esperienza?
Alla Nazione ero un mediatore. Il caposervizio che proveniva dal Tirreno (allora non c’erano giornali on line) non voleva contatti con il giornale dove lavoravo io. Avevo formato un’associazione di giornalisti de La Nazione e del Tirreno che dopo poco fallì perché c’era una concorrenza sfrenata, incoraggiata dai capi di Firenze e Livorno. Una ricerca continua di scoop: in provincia allora non c’erano addetti stampa e le notizie (a parte quelle del Comune, dei carabinieri e della polizia) te le dovevi cercare. Se il giornale concorrente aveva una notizia grossa che tu non avevi erano guai: arrivava subito la telefonata dei capi di Firenze con rimproveri, anche forti. Ora non è più così. I “buchi” ovvero le notizie che ha un giornale e l’altro no, si danno e si prendono.
- Quali sono gli altri ruoli oltre a quello del giornalista in una casa editrice, che spesso non vengono menzionati o magari si trovano ad essere sottovalutati dalla maggioranza delle persone che si affacciano a questo mondo?
Altri ruoli sono quelli riservati agli addetti stampa, che stanno prendendo campo. Quelli bravi emergono e nella politica, a volte, riescono ad indirizzare le scelte di chi sono al servizio. Hanno una certa specializzazione, soprattutto nell’economia. Si occupano di mandare via email le notizie, facilitando il lavoro dei giornalisti. Nelle case editrici gli addetti stampa sono specializzati nell’ambito culturale.
- Come crede che una ragazza/o di diciotto anni o comunque intorno ai venti si dovrebbe rapportare a questo mondo, sapendo che è quello in cui vorrebbe trovarsi tra dieci anni? Che percorso di studio o gavetta crede siano più efficaci per arrivare a scrivere all’interno di case editrici o redazioni?
Per essere presi da un giornale serve una solida cultura, ma non basta. Contano le conoscenze giuste, le raccomandazioni, le circostanze favorevoli, e un po’ di rischio. Fin da ragazzo ho sempre voluto fare il giornalista. Dopo la laurea nel 1976 hanno aperto a Lucca la redazione di “Avvenire”. Per fortuna conoscevo il capo e la moglie venuti da Roma, ero amico di una loro cugina. Cercavano un collaboratore della cronaca, lasciai le supplenze di Italiano e andai a cercare lavoro lì senza alcuna certezza, poi fui assunto. Mi mandarono a Pompei, poi a Firenze, Prato, Bologna e nel 1980, quando chiuse la redazione di Lucca, andai a Milano. Lavorai tre anni e mezzo là ma per motivi familiari dovetti lasciare quella città e venire alla redazione di Lucca, in pratica ritornando a casa. Più tardi venni nominato vicecapo.
- La donna allora viveva situazioni considerabili differenti rispetto a quelle che venivano riservate per l’altro sesso nel mondo giornalistico di trent’anni fa? Crede che oggi sia più difficile, uguale o facilitato l’ingresso di una donna in questa complessa sfera lavorativa che è quella della comunicazione scritta rivolta alle grandi masse?
Ora è più facile per una donna diventare giornalista. Trenta, quaranta anni fa le donne in redazione erano mosche bianche. Ora a volte vengono assunte più volentieri le donne perché gli editori vogliono far vedere di essere al passo coi tempi, riuscendo a sfruttare anche le potenzialità di una brava giornalista.
- Capire che voleva scrivere per guadagnarsi da vivere lo sapeva fin da piccolo o lo ha realizzato con gli anni? E se è stato un processo avvenuto gradualmente dentro di lei, cosa è che le ha fatto decidere che questo sarebbe dovuto sicuramente essere il suo percorso esistenziale e lavorativo?
Nella mia scelta lavorativa sono stato influenzato dal “68”. Volevo cambiare il mondo: avrei potuto scegliere altre professioni ma scelsi Lettere per poi fare il giornalista. Se uno/una vuole diventare giornalista deve lasciare Lucca, andare a Milano e non fare come me, che per motivi familiari è stato costretto a tornare indietro, da dove era venuto. Deve fare come Virginia Volpe. Lei che collaborava a Lucca con una Tv locale è andata a Roma, e ora lavora alla Rai.
- Oggi, anche se in pensione, quali sono i ricordi più dolci che la scrittura le ha lasciato nel suo lungo passato da giornalista della Nazione? Scrive ancora? Cosa direbbe a un ragazzo per descrivere questo grande lavoro, che oggi è considerabile azzardato e impegnativo come fare l’artista in un certo senso?
Quando vedo e vedevo ex collegi dell’Avvenire ricoprire incarichi professionali importanti provavo e provo un po’ di invidia. Fabio Zavattaro (ora in pensione) era mio vicino di scrivania a Milano. Per tanti anni poi, ritornato a Roma, è stato vaticanista del Tg1, si occupava di accompagnare Giovanni Paolo II nei viaggi apostolici. Massimo Nava è stato corrispondente del Corriere della Sera a Parigi. Massimo Franco si è costruito una carriera da noto opinionista, sempre del Corriere. Ora vedo in Tv Giancarlo Gioielli, corrispondente da Gerusalemme della Rai, a cui regalai un libro di S. Zita quando gli nacque negli anni Ottanta una figlia che aveva chiamato come la santa lucchese.
Ricordi tanti. Scoop sul rapimento della piccola Elena Luisi a Lugliano. Il principe Carlo d’Inghilterra e la regina Madre Elisabetta in visita a Lucca col pranzo al ristorante Solferino. Le interviste a Mario Tobino. I colpi di scena sull’eredità di Giacomo Puccini. Ma anche brutti ricordi, come inviato di Avvenire nel novembre “80 per documentarmi sulle morti dovute terremoto in Irpinia. Tanti ricordi, tante esperienze, tanto. Penso siamo tutti d’accordo nel dire che forse è questo che ti lascia questo lavoro.