Il fondo dell’universo15 min read

di Ludovico Tambellini

  Nei suoi interminabili viaggi Martin visitò ogni sorta di pianeta e stella, in lungo e in largo girò l’universo tanto da arrivare a pensare che nulla fosse più nascosto ai suoi occhi, nemmeno il più minuto frammento di roccia che vagava negli angoli remoti del cosmo.

   Le persone sono solite pensare che lo spazio sia la culla di infinite possibilità e fantasie ma Martin non la pensava così: in anni di esplorazione realizzò quanto fosse noioso e monotono l’universo. Neanche lui ci credeva ma in poco tempo si rese conto che ciò che caratterizzava il più esteso degli oceani non era altro che un ammasso di pietre, grigie e tristi rocce che addobbavano un nero imperscrutabile. Sentiva tradito il sé bambino catturato da quegli universi pieni di vita e di avventura che vedeva in tv; Star Wars era una completa finzione e lo capì solo a trent’anni nel pieno delle sue aspirazioni.

   La mancanza di stimoli lo immerse in una profonda depressione, poiché non c’era niente di peggio per Martin di vedere i sogni di una vita infrangersi nella cruda realtà. Era ambizioso, fin da piccolo lo fu, voleva scoprire qualcosa, passare alla storia come un grande esploratore, un rivoluzionario, un portatore di virtù e perseveranza, ma non era altro che una macchietta, e la consapevolezza di ciò lo privava della fiamma carburante dei suoi viaggi e della sua esistenza. In uno dei tanti giorni vuoti e tristi che accompagnavano la sua vita una fulminante idea pervase la sua mente: “Cosa c’è nel fondo dell’universo?”

   Sembra un’idea stupida, e forse lo è, ma scosse qualcosa dentro di lui, qualcosa di tanto potente e profondo da fargli ritrovare la voglia di fare ciò che amava. Egli pensava che chiunque avesse esplorato lo spazio lo avesse fatto per scoprire i suoi confini: vedeva gli esploratori sfrecciare con le loro grandi e piccole navi a destra e a sinistra, raramente però andavano verso l’alto e quasi per certo mai osavano andare verso il basso, o almeno verso quello che egli credeva essere il basso. Martin conosceva l’universo e le leggi che lo regolavano e quel pensiero andava contro ogni cosa da lui studiata, era totalmente fuori da ogni logica ma ormai era stato deluso così tanto dalla razionalità che decise di aggrapparsi a quell’ultimo barlume di pazzia. Quella stessa pazzia soverchiò la prudenza e senza pensarci troppo con uno zaino pieno solo di ambizione e speranza l’intrepido navigatore partì. Non era certo nuovo a viaggi del genere ma una sensazione di quel tipo non la provava dalla prima volta che salì su una nave, ed era fortunato, perché la libertà e la gioia di esistere non possono altro che essere le più belle emozioni che un essere umano possa provare.

   Si abbandonò così, come un giovane Kerouac, al casuale corso degli eventi che la nostra esistenza ci permette di percorrere. Ben presto si stancò di guidare ed essendo la strada da seguire un’infinita retta decise di impostare il pilota automatico e godersi il ben noto panorama che da sempre il cosmo gli donava. I pianeti, gli astri, gli asteroidi, le schive sfumature del cosmo e pure le più piccole particelle non erano altro che fiori in un eterno prato corvino, e Martin come il più piccolo degli organismi non poteva fare altro che osservare, in silenzio, ciò che dio aveva creato. Solcò per giorni e giorni gli immensi mari dello spazio senza la benché minima traccia di timore, fino a che l’ultimo timido astro non gli passò di fianco. Quella gracile stella non rappresentava solo un semplice corpo fisico ma era l’ultima possibilità di ripensamento, da lì cominciava l’abisso, e una volta sorpassata anche la luce in fondo al tunnel si sarebbe spenta e l’infinito avrebbe aperto le porte.

   Non c’era più nulla che l’occhio poteva percepire, né una stella né una roccia, ma solo denso e terso buio. Martin si stava immergendo nel più profondo degli oceani dove nessun uomo aveva mai avuto l’ardore di addentrarsi; era il primo al quale era mai stata proiettata nell’iride tale oscurità. Viaggiò per anni oppresso da un nero quasi irreale che lo circondava, in bilico tra libertà e claustrofobia. Sebbene potesse sembrare infelice Martin era abituato a stare da solo, non pensava ci fosse niente di meglio che stare abbracciati con sé stessi, ma non era così. Questa sua convinzione non era altro che una maschera dei suoi sentimenti, un primordiale istinto di sopravvivenza per non cadere nel baratro della solitudine, ma questa maschera d’un tratto si ruppe.

   Senza alcun motivo riaffiorò alla mente dell’astronauta l’unica persona che gli aveva provocato un turbine di sentimenti positivi in grado di sconvolgere la monotonia delle sue giornate: era una ragazza conosciuta diversi anni prima con la quale aveva avuto la parvenza di essersi innamorato, non riuscendo però neanche a parlarle. Quei momenti passati fecero realizzare a Martin qualcosa che infranse il castello di carte sul quale si reggeva, raggomitolandosi in posizione fetale sul gelido e aspro pavimento pensò a quanto era solo e infinitamente triste in quanto per lui la vita nello spazio, a migliaia e migliaia di chilometri dalla vita umana, era identica a stare sulla terra nell’indifferenza. Prese coscienza che i suoi viaggi non erano altro che un saldante della sua vita, che senza obbiettivi da lui stesso creati sarebbe caduta a pezzi in quanto vuota e arida, ma essi alla fine non bastavano a renderlo veramente felice. La felicità la provava solo quando pensava a quella ragazza, solo nei suoi costrutti mentali era felice, solo nella percezione fittizia di lei si realizzava.

   Tutto ciò era un pensiero estremamente immaturo, ingigantito dagli anni e dalla stanchezza, ma comunque riuscì ad iniziare a far sciogliere quella patina di ghiaccio attorno al cuore di Martin, quel sottile strato solido forgiato da anni di sofferenza che gli negava l’umanità. L’istinto riprese il controllo della situazione e Martin per mettere una pezza a questa frattura che deviava le sue ambizioni si ripromise di cercare quella persona una volta tornato sulla terra e testardamente riprese il viaggio, lasciandosi alle spalle quella traccia di debolezza e di paura. La vita di Martin aveva riscoperto un significato più profondo della sola ricerca di fama e successo, e proprio quando essa acquisisce un senso allora la morte inizia ad essere mal accetta.

  “Sono forte, sii forte” si ripeteva altalenante nella penombra di quella angusta stanza dove si poteva percepire l’anima dell’uomo più fragile che l’universo avesse mai concepito. Un pugno di sabbia reggeva il suo io, un pugno di sabbia che si opponeva al vento, una manciata di polvere che con tutte le forze cercava di trovare la sua direzione. Nell’esatto periodo in cui il drammatico phatos raggiungeva il massimo sviluppo Martin decise di sposare il suo stato d’animo con una canzone, la più struggente musica che avesse mai scovato: un susseguirsi di lievi suoni perfettamente incastrati tra loro, così alienanti che non sembravano neanche umani tanto erano perfettamente annodati. Se mai avesse dovuto pensare alla musica che il cosmo produceva secondo Pitagora avrebbe immaginato proprio quella che ora, con la sua delicatezza, invadeva la stanza.

I don’t like leaving


The door shut


I think I missed something


But I’m not sure what.

   Il viaggio continuò con questa atmosfera melancolica che palleggiava con la psiche di Martin; la sua nave continuò per giorni che la routine rendeva interminabili a scivolare nell’abisso, in quella lunga caduta verso l’ignoto. Arrivò il momento in cui si sentì terribilmente scoraggiato, per un attimo le sue follie persero la presa riaggrappandosi poi frettolosamente e a stenti.

   Decise così di darsi un altro anno di tempo, dopo di che sarebbe tornato sulla Terra in quanto, anche se non lo aveva ben capito, aveva trovato il suo motivo per vivere. Abbandonarsi all’universo, lasciarsi accogliere da colui che ci ha generato, l’ambizione, la gloria sembravano concetti lontani ormai, surclassati dal più comune dei sentimenti.

   Passò un mese, poi un altro, un altro, un altro un altro e un altro ancora. La fine dell’impresa stava per sopraggiungere, correndo a passo andante si avvicinava al suo compimento ma l’universo non aveva la grazia di concedere neanche uno stupido pezzo di materia. Nulla. Non c’era veramente niente, se non quell’oscurità protagonista di ogni millimetro di orizzonte, forse già quel buio così puro e ininterrotto era già un grande scoperta. D’altronde non è facile rendersi conto di cosa voglia dire fluttuare nel vuoto più totale senza alcun punto di riferimento, in un piano tridimensionale nel quale Martin e la sua nave erano gli unici oggetti tangibili.

   Altri trenta giorni trascorsero nel silenzio. Martin se ne stava stravaccato sul sedile, un occhio leggeva un libro mentre l’altro stava proiettato in avanti per scrutare l’avvenire. Era stranamente sereno, non gliene sarebbe fregato niente se non avesse trovato nulla, era un Martin diverso ormai, un Martin semplicemente disilluso e annoiato. Obbiettivi e prospettive di vita erano cambiati, ma ormai voleva tenere fede alla promessa e stare l’ultimo anno in viaggio per dire almeno a sé stesso di averci provato. Sarebbe tornato sulla terra a quarantasette anni, avrebbe cercato quella ragazza e si sarebbe vissuto l’esistenza da uomo comune, senza prospettive di successo, riuscendosi a godere quella quotidianità da cui era sempre fuggito e che con il tempo stava cominciando ad apprezzare. Un altro mese passò. Vuoto. Un altro mese passò. Zero. Un altro mese passò. Stava già con la mente proiettata al ritorno quando improvvisamente davanti a sé scorse qualcosa, qualcosa di tanto enorme che riusciva a celare i suoi confini alla vista. Un muro nello spazio. Pareva un enorme pavimento di cui l’universo era il cielo. Lo sguardo di Martin ne era irreparabilmente catturato, d’altronde quella massa occludeva ogni via di fuga della vista, chiunque la avesse anche solo guardata di sfuggita ne sarebbe rimasto attratto. Si scordò di ogni macchinazione che aveva maturato negli anni passati, quei pensieri che tanto avevano ramificato nell’animo si erano volatilizzati. Il Martin che sembrava scomparso tornò a guidare la nave, portando con sé un intricato puzzle di sentimenti ed emozioni alimentato dall’ambizione. Da lontano quella “cosa” non pareva altro che un leggero cambio di palette dell’universo, che sembrava essersi schiarito in un grigiastro colore, ma man mano che si avvicinava i suoi lineamenti divennero più nitidi. Un irto paesaggio si palesava sempre di più, aspre montagne di simil roccia spiccavano alte come nessun uomo aveva mai visto, riuscendosi a distinguere da quel pianeta monocromatico. Timide fonti di luce staccavano la superficie del corpo celeste dal resto del cosmo, diventando man mano più forti. Martin non sapeva che pensare, a prima vista era un monotono pianeta come sempre li aveva visti, ma la sua grandezza era così straordinaria che il solo circumnavigarlo sarebbe stata un’impresa. Si era deciso. Quel pianeta era ciò che dio aveva deciso di offrirgli, era il culmine dei suoi viaggi, la più grande scoperta che gli era stata concessa. Aveva il bisogno di trovare qualcosa che giustificasse le fatiche, doveva saziare la sua ambizione in modo da poter vivere un’esistenza tranquilla, un’altra delusione avrebbe significato una vita incompleta che mai lo avrebbe reso felice. Era quindi di vitale importanza che trovasse qualcosa degno di nota in quel dannato pianeta. Era determinato, mai nella vita lo fu come in quel momento, lo sguardo fisso davanti a sé mai si distraeva tenendo in una morsa visiva quell’aggregato di materia. In poche ore si avvicinò drasticamente. Ormai Martin era veramente prossimo al pianeta, tuttavia qualcosa di strano stava accadendo: la nave che da sempre non aveva mai superato la sua velocità di crociera, senza premere con particolare veemenza l’acceleratore stava andando lentamente ma inesorabilmente più veloce. I nodi aumentavano in fretta e Martin non ne capiva il motivo, ma più la “cosa” era attigua più era drastico l’aumento di velocità. Il cosmo in pochi secondi non era diventato altro che un insieme di linee cinetiche e Martin, spaventato, cercò di rallentare la folle corsa: con sua enorme sorpresa non ci riuscì, frenare non serviva a niente, non aveva più il controllo della nave che si trovava più che mai prossima all’impatto con l’atmosfera. Panico.

   Le lacrime scavavano trincee nel viso di Martin, lo sguardo si appannava e le mani razzolavano disilluse nei comandi della nave: aveva paura. In quegli anni di viaggio aveva imparato ad amare la vita come mai la aveva amata, la sua nuova concezione dell’esistenza non gli permetteva di essere impavido come una volta, anche se ci provava la realtà è che in fondo ci teneva a vivere, ci teneva a sospirare, respirare, soffrire, gioire e voleva continuare ad essere umano. Sembra scontato ma per Martin non lo era, la depressione uccide l’anima e reprime i più comuni sentimenti ed ora che finalmente era vivo voleva continuare ad esserlo.

   Le miglia orarie aumentavano esponenzialmente e l’impatto con l’atmosfera fu inevitabile. I motori andarono a fuoco e in una caotica danza di fiamme, lacrime e fumo Martin precipitava piroettando verso la tragica fine di un uomo. Con l’ultimo residuo di lucidità azionò il protocollo di emergenza: la sua cabina venne sparata in direzione contraria alla traiettoria della nave pochi secondi prima dello schianto, e per degli attimi si sentì salvo. Martin fu proiettato con buona velocità verso l’alto ed ebbe pochi secondi per guardare la morte che lo sfiorava con la sua falce. Il tempo si fermò. Una violenta esplosione si levò dalla superficie del pianeta, un tempo lucenti pezzi di metallo vagavano nell’aria sibilanti come proiettili; la naturale bioluminescenza delle rocce del pianeta mista al lampo dell’esplosione creava uno spettacolo di luci, che riflettendosi sulle lamiere a mezz’aria, generava violenti bagliori improvvisi e psichedelici: lo spettacolo della morte stava andando in scena dentro quell’inusuale teatro. Il fascino del caos durò ben poco, subito si tornò all’intricato scorrere di quella disturbante frazione di tempo. La piccola navicella che conteneva l’ultima speranza di Martin stava finendo l’energia cinetica ed inesorabilmente sarebbe precipitata verso il basso, guidata da quella misteriosa forza tanto crudele quanto potente. Così fu, la piccola scialuppa stava vorticosamente cadendo, vicina all’impatto se pur con meno velocità di quella che aveva la nave madre. Tre secondi impiegò dalla massima altezza, raggiunta con l’espulsione di emergenza, allo schianto col suolo alieno, tre secondi che sembrarono anni nella mente di Martin, tre secondi nei quali lacrime, pensieri, ricordi, gioie e tristezze si mischiarono insieme in un connubio ordinatamente caotico di emozioni, racchiudenti tutto ciò che Martin era e voleva continuare ad essere, tre secondi che sarebbero stati gli ultimi dei molteplici già trascorsi. Luce bianca.

    Martin era al suolo, disarcionato dalla nave a causa dello schianto, boccheggiava sofferente a terra con la tuta gravemente danneggiata. Ebbe fortuna, era vivo e l’ossigeno nel pianeta permetteva di respirare facilmente, ma il problema era un altro. Aveva capito, quella misteriosa e oscura forza causa di tutte le disgrazie non era altro che la gravità. La poderosa grandezza di quel pianeta mista ad altri fattori non visibili permetteva di esercitare una attrazione gravitazionale enorme, così forte da distruggere le ambizioni di uno come Martin.

   La scena era straziante: neanche un muscolo riusciva ad essere mosso ed il dolore lancinante delle fratture si mischiava alle ferite sulla schiena, che da graffi divennero lacerazioni e poi solchi. La gravità scavava nel debole corpo di Martin, così sofferente che neanche un soffocato grido provò ad emettere, riuscì solo a realizzare che tutto stava per finire e che sul destino non aveva libero arbitrio; percepì la sensazione della morte che lo spronava ad andare avanti, pressandolo ai calcagni, a perseguire ciò che era prossimo accadere. Con lui non solo moriva il corpo ma morivano le ambizioni, i sogni e le speranze, da una morte ne sarebbe scaturita una strage.

   Il battito aumentò velocemente e in quel silenzio assordante scandiva il tempo, creando un climax drammatico. Martin era un ateo convinto ma in quel momento, per la prima volta nella sua vita, nei suoi pensieri formulò una preghiera, non rivolta però né al Dio cristiano né a quello di altre religioni, ma al suo dio, alla sua personale concezione del cosmo che era venuta a galla e ad essa affibbiò tutte le sue speranze. La preghiera di un ateo è forse la più sentita che ci possa essere in un mondo di bigottismo, una preghiera senza pretese rivolta non ad un qualcosa di specifico ma a chiunque la volesse accogliere, uomini o dei che avessero la grazia di ascoltarlo, di farsi carico del testamento di quell’uomo tanto solo quanto sofferente.     

   Un’ultima calda lacrima malinconicamente abbandonò gli occhi lucidi di Martin, lentamente, quasi con nostalgia attraversò le gote, scivolò tra il braccio destro, raggiunse la mano, arrivò all’indice e in un piccolo fragore si infranse sulla fredda roccia. Con quella piccola goccia morirono il corpo, trafitto dalle dure rocce, e l’anima di Martin, ormai condannata all’esilio dalla vita e abbandonata all’oblio. Il gelido tronco se ne stava ora lì sdraiato al suolo, a far a gara con il pianeta a chi fosse più freddo. Il silenzio si fece ingombrante, divenne protagonista della scena; con la fine di Martin nulla più turbava quell’angolo remoto del cosmo, regnava la pace e la tranquillità, vi era finalmente l’armonia dopo il caos. E proprio in quel vuoto fonico il timido suono dell’universo emerse delicatamente e di soppiatto dai fondali dello spazio, cullando come una ninna nanna l’infinito sonno del misero Martin:

In the middle of the vortex


The wind picked up


Shook up the soot


From the chimney pot


Into spiral patterns


Of you, my love

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