di Abramo Matteoli
Sto scorrendo Instagram. Tanto non ho di meglio da fare, neanche volendo.
Dico sul serio, se fosse il 24 marzo del 2020 e tu vivessi in Italia, mio caro lettore, probabilmente anche tu non avresti niente di meglio da fare, a meno che tu non sia un dottore, un infermiere o Giuseppe Conte (anche se in quel caso, forse vorresti avere del tempo per scorrere Instagram). In ogni caso, dopo qualche Story inutile dove troneggia l’inutile hashtag “#iorestoacasa” (manco fosse un’impresa eroica, e non un semplice dovere imposto dallo Stato, diamine), mi si para davanti un post di @dailystoic, account che solitamente riesce a tirarmi su propinandomi massime di pensatori stoici talmente grandi e stimati che mi fanno sentire inferiore anche solo le prime sillabe dei loro conosciutissimi nomi (sarà per questo che ho sempre sentito un’ancestrale avversione verso la coscienza di Zeno?).
Il post in questione, stavolta, non cita però nessun grande stoico del passato, bensì espone un’iniziativa che la pagina ci teneva a proporre a tutti i suoi followers: una challenge che invita impiegare il tempo in modo produttivo. Per rendere il tempo “vivo” e non “morto”. Per investire su noi stessi durante questo periodo di quarantena piuttosto che passarlo passivamente, ammazzando ora dopo ora utilizzando qualsivoglia distrazione come arma del delitto.
Beh, stavo quasi per pensare che quel post, al contrario di tutti gli altri, non avrebbe soddisfatto il mio bisogno giornaliero di sentirmi inadeguato, insufficiente e non meritevole. Per fortuna mi sbagliavo di grosso.
Non faccio neanche in tempo a finire di leggere ed eccola che arriva. Subdola, come al solito. Micidiale, come sempre. Benvenuta, come mai avrei pensato. Ecco che arriva quella sensazione orribile, che inizia il suo operato con il sorgere degli interrogativi: “Sai che forse non sono abbastanza? Sai che forse sto sprecando il mio preziosissimo tempo in attività inutili? Sai che, forse, sto solo vivendo passivamente, senza riuscire veramente a godermi le giornate?”.
Una volta partiti questi interrogativi, l’uomo saggio saprebbe razionalmente dare una risposta. Nel mio caso, sarei in grado di riconoscere che alla fine non butto il mio tempo, in fondo suono uno strumento; passo del tempo giocando ai videogiochi, la mia passione; studio quanto basta e non me la passo così male.
Peccato che, mi pare di capire, non sono un uomo saggio. Una volta che partono quegli interrogativi, sono destinatia diventare esclamativi, in quanto non sono mai, e dico mai, riuscito a smentirli, a confermarmi, a rassicurarmi, a dirmi che vado bene. E così parte un vortice di autocommiserazione che mi travolge, mi sbatte qua e là, mi tormenta, mi toglie la voglia di fare qualsiasi cosa che non sia piangere o dormire, e, infine, mi coccola dolcemente, manco fosse mia madre.
Ecco fatto. Ecco spiegato come si fa a perdere una giornata. Si comincia scorrendo Instagram e si finisce con la faccia sotto il cuscino fino all’ora di cena.
Vi vedo già. Cosa c’entra la quarantena? Elementare, la quarantena è l’imbuto che inevitabilmente mi fa scivolare quotidianamente nel vortice sopra descritto.
Rinchiuso in casa, non posso neanche uscire a sbollire, per scappare alla trappola che si rivela essere il mio letto. Rinchiuso in casa, non ho niente da fare se non render conto ai miei coinquilini, divenendo solo un ulteriore grattacapo di cui non avevano bisogno. Rinchiuso in casa, non ho scampo. E così i giorni diventano un tentativo di non sentirsi un rifiuto umano, una corsa ad ostacoli cui traguardo è la sera, un’odissea imposta che mi spaventa a morte e mi tiene occupato con la disoccupazione.
Non voglio stare male.
Eppure perché non riesco a reagire?
Sarà un periodo, forse.
Sarà lo stress, forse.
O forse, è solo che non sono abbastanza.
Per niente.
Neanche per rendermi conto che lo sono.
Neanche, per me stesso.