Il cammino verso la felicità9 min read

 

di Chiara Morelli

La felicità è uno di quei concetti che tutti conosciamo, ma che al tempo stesso, sfugge a ogni definizione universale. È protagonista di film, libri, anche di sogni che cercano disperatamente con l’immaginazione di raggiungerla, ma la verità è che essa sembra sfuggirci proprio quando cerchiamo di afferrarla con troppo vigore. È un desiderio comune, una meta ambita, ma anche una sensazione fugace, delicata e profondamente personale. Il problema forse sorge proprio qui, nel considerare l’essenza della felicità come una destinazione invece che un viaggio, un percorso che attraversa il nostro cuore, le nostre esperienze e il nostro modo di vedere il mondo, e che come tale ha bisogno di tempo, di introspezione e di accettazione.
Siamo continuamente ingannati dalla convinzione che la felicità dipenda da ciò che possediamo o che potremmo ottenere: una bella casa, un lavoro dignitoso, una relazione stabile, soldi da spendere in viaggi e per condurre “la bella vita”, insomma qualsiasi cosa che da sempre la società ci ha imposto come un qualcosa da rincorrere e afferrare. Essere felici viene tradotto come raggiungere determinati standard e la felicità si trasforma in qualcosa da conquistare, come se ci fosse un’unica formula per tutti per raggiungerla. Questa corsa incessante verso un qualcosa di più, questa brama che a volte è sinonimo di avidità ed
egoismo, è una considerazione di felicità a cui molti fanno riferimento, ma potrà mai essere la forma di una felicità autentica?
La ricerca della felicità è un tema che non solo oggi ci poniamo, l’uomo ha sempre cercato ciò che gli fosse vantaggioso, ciò che nella forma più pura lo facesse stare bene. Ha attraversato secoli di pensiero filosofico e l’epicureismo rappresenta una delle visioni più raffinate e controverse su questo tema. Epicuro infatti, il filosofo greco che ne è il fondatore, ribaltò le tradizionali concezioni del suo tempo, proponendo un’idea di felicità che non si fondasse sull’accumulo di ricchezze o sul soddisfacimento incontrollato dei desideri, quanto più su una vita equilibrata, libera dai timori e orientata al piacere. La dottrina epicurea così si
basa su un paradosso fondamentale per cui per essere felici dobbiamo liberarci dal timore dell’infelicità e non solo. Gran parte del turbamento e della sofferenza umana non deriva infatti da eventi reali, ma dalla paura, paura degli dèi, paura della morte, paura del dolore, paura dell’infelicità. Questi timori agiscono come un’ombra perenne, impedendoci di godere del presente e generando infelicità anche in condizioni in cui, oggettivamente, non ne avremmo motivo. Nell’ottica di Epicuro la cura a questa condizione si caratterizza per quattro indicazioni che la filosofia dà per raggiungere la felicità, il tetrafarmaco, capace di liberare gli esseri umani dai quattro grandi timori che li attanagliano: così gli dei non interferiscono con le vicende umane, la morte non fa parte dell’esperienza umana, il dolore è visto come temporaneo o sopportabile e il piacere è facile da raggiungere. Questa visione radicalmente innovativa spinge l’uomo a riconsiderare i fondamenti delle sue paure e a riscoprire una serenità interiore che non dipende da fattori esterni. Per Epicuro gli stati di felicità e infelicità devono dipendere in maniera decisiva dalle sensazioni che giungono al corpo che sono rispettivamente quelle di piacere e di dolore, due varianti del pathos. La felicità in questo senso consiste nel piacere, ossia edonè, che è a fondamento della vita e costituente essenziale della felicità. Tuttavia non si parla di un piacere cinetico, legato al soddisfacimento di desideri definiti non naturali e non necessari, come la ricchezza, gli onori o il potere politico,pertanto un piacere dinamico e transitorio che si esaurisce nel momento stesso in cui viene soddisfatto lasciando spazio a nuovi e sempre inappagati desideri. L’autentico piacere epicureo è invece quello catastematico che consiste nella salute del corpo e tranquillità dell’anima, l’ aponia (assenza di dolore nel corpo) e l’ atarassia (assenza di turbamento
bnell’anima). Non è dunque il piacere frenetico e momentaneo a rendere felici che può condurre a un vortice di turbamento, ma la capacità di mantenere uno stato di serenità interiore, libero dai desideri eccessivi e dalle angosce. È un piacere duraturo e non un godimento materiale accompagnato da emozioni intense che rischiano di turbare l’anima e la cui perdita implica dolore.
È senza dubbio affascinante la concezione della felicità epicurea per la sua chiarezza espositiva e la sua promessa di un’esistenza libera dal dolore e colma di piacere. In particolare appare straordinariamente attuale nella realtà contemporanea e nella condizione sociale di oggi. Viviamo infatti in una società che spesso ci impone e ci spinge costantemente verso ideali irrealistici di successo, di bellezza e possesso, costringendoci a inseguire obiettivi
che non sono neanche nostri, ma obiettivi che sentiamo il dovere di seguire. Siamo continuamente indirizzati verso piaceri cinetici alla ricerca compulsiva di nuove esperienze.
Eppure questa corsa all’eccesso sembra avere l’effetto contrario della felicità, buttandoci in un ciclo infinito di desideri insoddisfatti. La chiamata di Epicuro ci invita ad un cambiamento di rotta. Dobbiamo smettere di correre dietro all’ìnconsistente, ad un immaginario traguardo da raggiungere accumulando cose, ma fermarci e chiederci se davvero abbiamo bisogno di ciò che inseguiamo. Non deve esserci una rinuncia al piacere bensì bisogna essere portatori di uno stato mentale che dipenda dalla nostra capacità di regolare i nostri desideri e di apprezzare le cose più semplici della vita, in un atteggiamento consapevole e grato nei confronti di essa. Molte altre concezioni della felicità, come quelle edonistiche o utilitaristiche, pongono l’accento sulla ricerca di piaceri intensi e immediati mentre l’approccio epicureo risulta più equilibrato perché non si concentra su un piacere esagerato, ma invita a perseguire una felicità più duratura e profonda. Se l’edonismo può facilmente sfociare nella frenesia,l’ epicureismo ci insegna che la felicità non è una condizione permanente, ma una conquista quotidiana, che si trova in un equilibrio fragile ma che va costantemente custodito con consapevolezza e disciplina. In questo senso non è necessario inseguire un piacere dopo l’altro per sentirsi realizzati ma al contrario il piacere più grande è proprio la capacità di apprezzare questo equilibrio e questa semplicità del vivere.
Tuttavia senza sminuire la grandezza di una visione inedita di felicità, non la considero come totalmente mirata sulla reale ricerca del piacere. È giusto promuovere una filosofia che implichi una vita serena e distaccata dalle illusioni però Epicuro la presenta come una condizione totalmente “privata”. Si incentra esclusivamente sull’equilibrio interiore e sul piacere come misura del bene, focalizzandosi quindi solo sul piacere personale in un’idea che, pur non essendo intrinsecamente egoista, mi sembra essere un po’ limitata al singolo e non estendibile alla complessità della vita umana. Nella felicità vista come riduzione della sofferenza e appagamento dei desideri naturali e necessari, ciò che viene trascurato è l’importanza del significato che attribuiamo alla vita. Per quanto essa possa essere il risultato di una serenità interiore, non può realisticamente ridursi unicamente all’assenza di dolore e alla ricerca di un piacere misurato, perché semplicemente l’uomo, purtroppo o per fortuna, non vive solo di serenità, di equilibrio, di stasi, ne è a dimostrazione la sua evoluzione che lo
ha portato ad essere quello che siamo e che conosciamo oggi. È invece da considerare il dolore non come un qualcosa da cui fuggire. Spesso è proprio attraverso il confronto con il dolore, la lotta contro le avversità e la ricerca di scopi che vanno oltre il piacere semplice che possiamo trovare una felicità più profonda. La felicità non può e non deve essere solo un bilancio positivo dei piaceri e dei dolori ma, proprio per la nostra condizione umana, un cammino di realizzazione di sé, di crescita, di scelte difficili che a volte ci possono mettere in
crisi, farci scontrare con il dolore ma che allo stesso tempo ci arricchiranno come individui.
Essa può nascere dalla tranquillità interiore,ma si deve alimentare dalla passione,dall’impegno verso i nostri sogni, dall’amore non solo per noi stessi ma anche per gli altri e dalla consapevolezza di vivere un’esistenza con un valore che supera la ricerca del piacere personale.
In fondo la vita stessa ci offre sempre l’opportunità di scegliere. Possiamo lasciare che il dolore ci paralizzi, ci renda inermi e impossibilitati a continuare un cammino senza certezze, oppure possiamo decidere di imparare da esso e migliorarci continuamente. Ed è questa scelta che secondo me incide sul possedere una felicità superficiale o una felicità che sappia riconoscere il valore profondo di ogni esperienza, anche se dolorosa, una felicità più autentica
che non ripudi il dolore ma anzi si forgi nella resistenza ad esso e nella consapevolezza della nostra umanità. È forse l’interconnessione tra queste due sensazioni di dolore e di felicità che rende la vita così imprevedibile eppure meravigliosamente piena. È nel loro contrasto che la nostra esistenza acquista il suo vero valore, quella bellezza che non può essere ridotta a momenti di piacere fugaci, ma che viene costruita piano piano attraversando strade buie per
poi imparare a sorridere una volta che si arriva ad uno spiraglio di luce. Mi attrae una felicità che emerga dal confronto con le sfide della vita, che nasca dalla nostra capacità di essere vulnerabili, ma allo stesso tempo di risultare forti quando serve, di provare emozioni intense e di imparare dalle difficoltà, da ciò che puo allontanarmi dal mio obiettivo di essere felice per perseguire ancora più ardentemente la desiderata sensazione. Ogni sofferenza non è dunque
vana ma ci plasma, ci fa comprendere meglio noi stessi e ci permette di vivere una felicità non solo ideale ma una che sia una conquista personale, come frutto di una battaglia interiore.
Allora alla domanda “Che cos’è la felicità?” probabilmente non avremo mai una risposta definitiva, ma non ne abbiamo nemmeno bisogno. Ciò che conta è continuare a cercarla, sapendo che non è lontana, che si nasconde dentro di noi ma che deve essere ricercata giorno dopo giorno nelle avventure della vita. Sta a noi poi ascoltarla, accoglierla, e anche condividerla. Il piacere semplice e la cosapevolezza dei limiti umani sono aspetti importantissimi e indispensabili in una società ormai consumistica come la nostra. Tuttavia questa felicità non deve essere concepita come il contrario del dolore ma come il suo complemento, come la scelta di accettare la vita con tutte le sue sfumature, e di vivere credendo che, nonostante le difficoltà, ci sia sempre qualcosa per cui vale la pena sorridere.
Auguro e invito così a non vivere mai in una condizione statica ma in un continuo cammino verso la felicità che risalti nella frenetica danza della vita.

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