di Abramo Matteoli
Plop!
Stappo una bottiglia, me ne verso un po’. Mentre le bollicine chiare iniziano a percorrere il calice penso che è proprio una bella occasione. Poi, tutto sommato, me lo merito proprio.
«Per cosa beviamo?» chiede, giustamente, la voce fuori campo.
«All’anno nuovo. Brindiamo all’anno nuovo» rispondo io; potrei sembrare in ritardo, ma non lo sono per niente. Gennaio è un mese di uggiosa nostalgia, troppa per esser considerato incipit di un nuovo tempo. Gennaio è la pagina bianca che si frappone tra i capitoli di un libro, quella che ci permette di respirare, mentre sbagliamo a scrivere la data e ci permettiamo una finestra di distrazione. Si, gennaio è proprio affollato, c’è troppo su cui riflettere, troppo da promettersi, un freddo cane, e il calciomercato – come se non bastasse.
Arriva, di questi tempi, un momento in cui ti rendi conto che è febbraio. È lì che comincia il nuovo anno, rinnovi la tua consapevolezza che il tempo vola, sbuffi, e un po’ ti prendi male. Mancano meno di due settimane a San Valentino, Sanremo insidia le chiacchere, il tempo per bighellonare giunge al termine. È l’istante in cui la pagina bianca lascia spazio al capitolo nuovo, che inizia perché deve, impreparato, di malanimo.
Ad essere onesto, però, festeggio soprattutto per un’altra ragione. Si è appena concluso un periodo d’affanno indaffarato. E io, posso finalmente riprendere a respirare.
Nonostante mi consideri perfettamente nella media, utilizzo parecchio il mio arrembante telefono per scorrere chilometri di home page. Sia TikTok o Instagram non importa, il dove non interessa, ma interessa il cosa mi propinano quei meravigliosi algoritmi dalle uova d’oro. Quando è iniziato formalmente l’anno nuovo, infatti, sono stato inondato da una moltitudine innumerevole di video-recap atti a consegnare l’anno appena tramontato alla memoria, impacchettandolo per bene. Sapete benissimo a che video mi riferisco, quelli colmi di ricordi felici, intensi tramonti, amici perfetti, sorrisi giovani – che “ricordano” l’anno che è stato. Video che emanano un’aura spensierata, che ti fanno sentire in colpa di esserti svegliato col piede sbagliato.
Ne vidi uno, due, cinque. Iniziai a odiarli. Dieci, venti, cento.
Colori sgargianti, musica angelica, volti allegri, capelli al vento, sguardo al futuro, saudade speranzosa. Sembravano prodotti con lo stampino. Scorrevo e scorrevo ancora. Non c’era mica scampo. Il mio pollice tremava combattendo lo schermo sporco, fuggiva (invano) via dal paragone, che come accade sovente, ne uscì comunque vincitore.
Eccomi a comparare. Iniziavo a crederci, me la stavo bevendo che tutti questi qua avevano avuto un anno bellissimo, o comunque, migliore del mio. Il mio anno passato è sicuramente difettoso, certamente indegno di partecipare alla sfilata cui stavo assistendo. Guarda questi come se la passano bene! Nonostante gli indiscussi alti e bassi (quelli ce li hanno tutti) possono esser fieri di presentare alla biblioteca del ricordo 365 giorni che luccicano – splendenti di amor proprio e serendipità.
Non fraintendetemi, sono un grande ammiratore del guardare-il-bicchiere-mezzo-pieno e del gioire-delle-piccole-cose. Ripercorrere i bei momenti di un passato prossimo ha effetti benefici indiscutibili. Diamine, può pure essere catartico. Può aiutare a slanciarsi positivamente verso il futuro che, come sempre, non può che fare almeno un po’ di paura.
Il problema sta nel racconto. O meglio, ci sta l’intoppo. O meglio, ci sta ciò che veramente mi fa girare le scatole.
Sarà per la brevità, sarà per ciò che vi pare, eppure qualcosa non torna. C’è puzza di bruciato. Fermandosi un attimo risulta addirittura scontato: il quadro che viene presentato è senza dubbio un falso. Una bugia bianca imbottita di paracetamolo.
«Dove ci troviamo!?» chiede, preoccupatissima, la voce fuori campo.
«Silenzio! È il punto del testo in cui si fa una grande figura retorica» rispondo io, con tono severo, ma tranquillizzante.
Avete presente il muro di Jesi? In soldoni è un muro dove sono stati fucilati alcuni partigiani – una vera tragedia. Fatto sta che è tutto bucherellato, crepato. È un muro un po’ bruttino, ad essere onesti. Rimane in piedi, ma cade a pezzi, soffre un po’ il passare degli anni. È un muro vissuto, e gli abitanti premono perché venga conservato così com’è. Racconta una storia, dopotutto. È specchio di ciò che siamo stati e, di conseguenza, di ciò che siamo e saremo. Sarebbe un peccato se venisse vandalizzato, o peggio, riparato.
Ecco, secondo me le nostre vite (nel senso di esperienza vissuta) tutto sommato non sono tanto diverse da un muro zeppo di buchi. Per Dio, il muro è solido, funziona bene come ogni altro muro, è resistente e tutto il resto – ma non si potrebbe dire che è perfetto, di fatto qualche buco c’è.
Non so voi, ma non riesco a non immaginare vividamente tutte queste persone nei recap intente a stuccare il proprio muro. A lisciarlo con bella musica, tingerlo con colori inventati, scegliendo quale parte specifica è meglio fotografare in vista della pubblicazione. Tutto perfettamente disonesto.
L’alone del racconto è bravo a far carte false per vincere la gara a chi vive meglio. In fondo, questi recap funzionano. Secondo me anche quelli che li postano alla fine si convincono che il loro muro è piatto come lo presentano.
«Sei proprio un guastafeste però» interrompe, senza peli sulla lingua, la ora fastidiosissima voce fuori campo.
«Lo sono perché non mi fai finire» ribatto io, un po’ offeso, sotto sotto.
In questo periodo ho ripensato a gente come Tabucchi e come Hemingway. Non sono certo un professorone letterato, ma, in questa occasione, ci ho pensato comunque. Loro hanno lasciato testimonianze che surclassano il peso del tempo, scrivendo storie che colpiscono nel profondo. Non sono mica da soli ad averlo fatto, ma allora perché ci ho pensato?
Ci ho pensato perché gente come loro sta in piedi davanti al proprio muro bucherellato, e lo indica. Ne descrive i bitorzoli, riportando le imperfezioni, senza accentuarle o tantomeno attenuarle. Loro rammentano l’autentico, senza vergogna.
Ed eccolo qua il sublime, stretto in pugno. Era lì tutto il tempo. Non c’era bisogno di affaccendarsi tanto. Siamo tutti uguali (e bucherellati), e venir descritti con cotanta cura e onestà ti strizza le budella, ti agguanta il cuore, ti spiazza.
Possiamo mostrare a tutti che leggiamo la Brontë in un giorno tempestoso, stringendo la tazza di tè inglese. Possiamo anche vantarci del pic-nic coi nostri amici, così belli nonostante le imperfezioni. Possiamo raccontare la nostra giornata al mare, giurando di aver gustato il tramonto come in un quadro di Friedrich. Ma perché cedere al romanticismo?
L’autentico è abbastanza commovente, dispone della sensibilità dell’onesto, è emotivo e pieno di sé. Trabocca di vita.
Romanticizzare a questa maniera non è che stucco per il muro di Jesi. Un ripudio del reale utile a dimenticarsi che ci sono giorni in cui sputeremmo all’immagine che vediamo allo specchio, a nascondere sotto al tappeto quintali di insicurezze. Serve a convincersi che i buchi non abbiano ragione di essere; che siano – in realtà – imperfezioni, più che essenza dell’identità che ci pesa sulle spalle, più che occasione di amor proprio, più che motivo di comunione con il prossimo.
Addio 2021, non sei bello come nei recap, lo sei di più. Se solo mostrassero tutti i tuoi spigoli (scalini di progressione), tutti i tuoi bassi, tutti i tuoi difetti, tutto e basta. A detta mia sei più bello senza trucco, come quella ragazza che piace a tutti sul bus delle 7.30, ma che nessuno ha mai avuto il coraggio di dirglielo.
«Secondo me sei solo invidioso» ci tiene comunque a puntualizzare, infine, la solita voce fuori campo.
Abramo Matteoli si è diplomato nel 2020 al Liceo Scientifico Vallisneri e ora studia psicologia all’università di Manchester.