di Nello Benassi
Giugno si colora di arcobaleno, anche se quest’anno in maniera virtuale, in occasione del “pride month”, letteralmente “il mese dell’orgoglio”. Ma di che orgoglio stiamo parlando?
Per capirlo dobbiamo riavvolgere il nastro alla notte tra il 27 e il 28 giugno 1969. Ci troviamo a New York, più precisamente in un piccolo locale di Cristopher Street: lo Stonewall Inn. Un punto di riferimento per tutti i gay della Grande Mela.
Le retate da parte della polizia non erano una novità. Spesso avvenivano a inizio serata e senza troppi effetti collaterali. Ma quella sera accadde qualcosa di diverso. Era circa l’una e mezza di notte quando otto poliziotti fecero irruzione nel locale e arrestarono non solo chi era sprovvisto di un documento di identità, ma anche coloro che indossavano vestiti del sesso opposto e i dipendenti del bar.
A questo punto mito e storia si fondono. Celebre è l’immagine di Sylvia Rivera che al grido “it’s a revolution” (è una rivoluzione) avrebbe scagliato una bottiglia contro un agente che la stava strattonando. Eventi che aleggiano nella leggenda, ma assolutamente plausibili.
Stonewall è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che la comunità LGBT+ stava aspettando. A quel punto la folla era in delirio e iniziò a ribellarsi, riversandosi in strada e costringendo gli agenti a rifugiarsi all’interno del locale. Il bilancio della prima notte di scontri fu di 13 persone arrestate, a fronte di 4 poliziotti feriti. Un numero esiguo se confrontato con quanto riportato dalle cronache locali nei giorni successivi. Si parla, infatti, di uno scontro tra una folla di oltre 2000 persone e 400 uomini delle forze dell’ordine.
La sera successiva il bar era nuovamente aperto. La notizia degli scontri aveva attratto una folla di migliaia di persone. All’appello non mancarono un centinaio di poliziotti. Gli scontri ripresero anche la seconda sera, fino a che alle due di notte fu nuovamente chiamata la polizia anti-sommossa. In tutto, le notti di scontri furono cinque.
Lo Stonewall Inn sopravvisse solo poche settimane dopo questi eventi. Il fatto che il suo nome fosse finito su tutti i giornali lo rese un luogo poco sicuro per gli omosessuali non dichiarati. Già a ottobre l’edificio esponeva il cartello “affittasi”.
Fu l’inizio di una rivoluzione globale. Coi moti di Stonewall nacque il movimento di protesta gay che nel luglio dello stesso anno portò alla fondazione del “Gay Liberation Front”. Nei messi successivi iniziative simili si diffusero in tutto il mondo occidentale e in particolare in Europa.
L’anno successivo, nel 1970, Brenda Howard, attivista femminista, bisessuale, poliamorosa, organizzò una marcia in commemorazione dei Moti di Stonewall. Vi presero parte più di diecimila persone. Ecco che prende vita al primo gay pride della storia.
Molte persone si domandano se abbia ancora senso l’organizzazione di parate come i Pride, soprattutto nei paesi dove teoricamente sono stati riconosciuti pari diritti a tutte le persone a prescindere dal loro orientamento sessuale e che vedono nelle sfilate solo una “carnevalata”.
La risposta è un fermo e sonoro sì. Ancora oggi, dopo 51 anni, i pride sono una manifestazione di orgoglio. C’è ancora molto lavoro da fare. Se in Italia, per esempio, le persone omosessuali si possono unire civilmente, l’espressione sessuale e l’identità di genere sono argomenti che riscontrano numerosi attriti. Il movimento LGBTQ+ non riguarda solo diritti e libertà legislative, ma anche libertà sociali e culturali che spesso non vanno alla pari con la legge.
Inoltre, non si scende in piazza solo per sé: in molte parti del mondo le persone LGBTQ+ sono punite, torturate e allontanate dalle loro comunità. In oltre 72 paesi essere omosessuali è un reato. Se in molte stati i Pride sono occasioni di festa, pieni di divertimento e musica; in altre non c’è niente da festeggiare. Sono soprattutto manifestazioni militanti e rivendicative perché ci sono gay e lesbiche, anche molto giovani, che combattono innanzitutto per la loro incolumità.