di Pietro Phelan*
Affrontare la permanenza forzata a casa non è senz’altro un compito semplice e gli stimoli per la nostra mente sono sempre più difficili da trovare. Da qualche settimana a questa parte, l’eventualità di cadere in un’asfissiante monotonia intellettuale è sempre dietro l’angolo, rischiando di far sembrare ancora più opprimente e insostenibile questo particolare periodo delle nostre vite. In molti accusano il fatto di non sapere come impiegare il tempo e in che modo trascorrere le lunghe giornate casalinghe che siamo “costretti” ad affrontare quotidianamente. Ma, in questo periodo più che mai, bisogna resistere alla tentazione di spegnere il cervello e rassegnarsi alla monotonia della quarantena. Tenere allenata la nostra mente, proporle stimoli sempre nuovi e originali, farla lavorare alla ricerca di nuove interpretazioni e idee originali, sono alcuni fra i migliori rimedi per evitare una lenta e inevitabile alienazione in se stessi.
In questo senso, il cinema rappresenta uno degli strumenti più efficaci a nostra disposizione. Nelle sue espressioni più alte, questa forma d’arte riesce a stupire sia per i contenuti di cui si fa portavoce, sia per ciò che propone dinnanzi ai nostri occhi. Il cinema è un’unione inscindibile di parola e immagine, di forma e contenuto, che si distingue dalle sue arti “sorelle” per il fatto di proporre immagini catturate da un occhio mai fisso ma costantemente in movimento e in grado di offrirci molteplici punti di vista, ovvero la macchina da presa. E quando l’opera cinematografica è grande, ciò che possiamo trarre da essa è tanto un piacere estetico derivato dalla sua contemplazione (lo stesso che ricaviamo dall’osservazione di un eccezionale dipinto), quanto una nuova prospettiva sul mondo che ci circonda.
Nelson Goodman, grande filosofo delle forme artistiche, pensava che un’opera d’arte potesse essere definita “grande” nella misura in cui essa fosse risultata “illuminante” per la nostra concezione del mondo. Un grande film, dunque, è quello che ci fa vedere cose che in precedenza avevamo tralasciato, che ci offre nuove e originali prospettive su tematiche già affrontate e che riesce a trasformare, anche solo parzialmente, la concezione dell’ambiente in cui viviamo.
A tal proposito, uno dei modi migliori per manifestare e coltivare il nostro istinto cinefilo, è dedicarsi a stimolanti “progetti di visione”. Ci si può avventurare alla scoperta di film provenienti da paesi che non rientrano nell’ottica americana o europea, così da poter entrare in contatto con culture e filosofie di vita profondamente divergenti da quella occidentale. Oppure si può andare alla ricerca di quegli autori, forse meno conosciuti, ma che in ogni loro opera cercano di sperimentare e di portare lo spettatore ad una riflessione mai banale. David Lynch, David Cronenberg e molti altri rientrano in quest’ultima categoria, ma fra gli autori contemporanei più interessanti e, al tempo stesso, meno ricordati dal grande pubblico, va sicuramente menzionato Jim Jarmusch.
Grande esponente del cinema indipendente americano, Jarmusch si è sempre voluto tenere fuori dai meccanismi dell’industria hollywoodiana, rivendicando la propria libertà artistica e il controllo totale sulle proprie opere. Sin dai suoi esordi, il cineasta americano ha saputo stupire i festival di tutto il mondo per il suo stile inconfondibile e per la quantità di generi cinematografici esplorati e reinterpretati. La filmografia di Jarmusch è eclettica, sorprendente e piena di ottimi spunti di riflessione. Ma il piccolo “progetto di visione” che vorrei qui consigliare, consiste nel guardare uno dopo l’altro due dei suoi ultimi film, ovvero “Solo gli amanti sopravvivono” (2013) e “I morti non muoiono” (2019).
Il motivo di questo progetto è presto spiegato: entrambi i film sono dei monster-movie. Questo non significa che essi abbiano l’unico scopo di intrattenere il pubblico, per mezzo di effetti speciali e azione a palate. Al contrario, Jarmusch, in quanto grande autore, ha preso un genere ormai abusato e bistrattato per renderlo nuovamente nobile, come agli albori della settima arte. I mostri diventano un potente strumento, nelle mani di Jarmusch, per riflettere sulla contemporaneità, sulle problematiche ecologiche, sulla decadenza dell’arte e molto altro. Ma andiamo con ordine.
“Solo gli amanti sopravvivono” ha per protagonisti due vampiri innamorati, Adam e Eve. Entrambi hanno vissuto secoli di storia, hanno conosciuto personalmente le grandi menti del passato e ne hanno addirittura influenzato le opere. Adam, in particolare, è un grande musicista, che in passato ha ispirato la musica di Schubert, e che ora rappresenta un punto di riferimento nel panorama della musica underground. Eve, invece, possiede una cultura sconfinata e si diletta nella lettura di opere scritte in qualsiasi lingua e provenienti dai più disparati periodi storici. In quanto vampiri, entrambi conducono un’esistenza appartata, nascosta e ai limiti della società umana. Il loro sostentamento è garantito da sanitari corrotti che, frequentemente, procurano loro sacche di sangue pulito. Il che risulta sempre più difficile, in quanto veniamo a sapere dai due vampiri che il sangue degli “zombie” (così vengono chiamati gli esseri umani) è sempre più contaminato e di scarsa qualità.
Tutto il film si gioca su una dialettica fra le due categorie di mostri citate, ovvero vampiri e zombie. I vampiri sono creature raffinate, che coltivano la cultura, amano la poesia e contemplano la bellezza. Disprezzano gli zombie, ovvero gli uomini contemporanei, in quanto non si prendono più cura del loro mondo, non hanno interesse per l’arte e sono totalmente rinchiusi nei loro interessi egoistici. Nonostante ciò, la vita di Adam e Eve dipende necessariamente dagli uomini e dal loro sangue, senza il quale cesserebbero di vivere.
Quella che Jarmusch ci racconta, dunque, è una storia di vampiri “decadenti”, i quali, consapevoli del loro eccezionale intelletto e talento artistico, si mettono ai margini di una società massificata, che non condivide i loro valori e non ha tempo per apprezzare le loro creazioni. In questo senso, la figura vampiresca diventa un’efficace strumento allegorico per raffigurare una situazione, che Jarmusch percepisce come assolutamente attuale: artisti e intellettuali, pur rivendicando una superiore sensibilità e nobiltà d’animo, sono comunque costretti a dipendere da quelle grandi masse, che invece vorrebbero rifuggire. Ma non solo. Anche rassegnandosi alla necessità di questa dipendenza, trarre sostentamento dagli umani è sempre più complicato. Il sangue degli “zombie”, infatti, è contaminato, il che significa che Adam e Eve faticano sempre di più a reperire sangue puro in grado di conferire loro vigore.
La contemporaneità affrescata da Jarmusch, dunque, assume dei tratti assolutamente inquietanti: di fronte al degrado morale e materiale delle grandi masse anonime, i pochi promotori della cultura ancora rimasti rischiano di precipitare in un silenzioso e inevitabile oblio. Come potrebbero, d’altronde, sopravvivere l’arte, la musica e la letteratura, se il pubblico cui esse si rivolgono non ne è più interessato? Pare che in questo mondo non ci sia più posto per intellettuali e artisti, i quali si ritrovano confinati ai margini di una società, che procede inesorabilmente verso la propria fine.
Quasi come se fosse un sequel spirituale, “I morti non muoiono”, ultimo film del cineasta americano, eleva all’ennesima potenza diversi dei temi già affrontati nell’opera del 2013. In questo caso, la vicenda riguarda la piccola cittadina americana di Centerville. In seguito alla deviazione dell’asse terrestre da parte di una multi-nazionale, che spera così di ricavare nuove risorse energetiche, il normale corso della natura viene sconvolto: il sole rimane alto in cielo fino alle nove di sera, tempeste e uragani si abbattono su diverse parti del pianeta e, dulcis in fundo, i morti risorgono dalle loro tombe. Gli abitanti di Centerville si trovano, così, catapultati all’interno di un’apocalisse zombie sui generis: i non-morti, infatti, si comportano in un modo assai particolare. Piuttosto che assalire le case dei vivi, i morti viventi riprendono le loro abitudini di un tempo: alcuni si ammassano all’entrata di negozi, altri si dirigono al diner in cerca di una tazza di caffè, altri ancora, recuperato il proprio smartphone, vagano per la città tenendo lo sguardo fisso su uno schermo luminoso.
Se in “Solo gli amanti sopravvivono” il termine “zombie” era usato allegoricamente dai vampiri per indicare gli umani, in questo film la metafora diventa realtà concreta. Le grandi masse contemporanee, ormai, si sono trasformate in un’orda di morti che camminano, rinchiusi all’interno della loro sfera egoistica e incapaci di relazionarsi coi propri simili. Non è un caso, poi, che l’apocalisse si generi in seguito al già citato esperimento di una spietata multi-nazionale. È proprio lo sfruttamento inconsiderato della natura e delle sue risorse che ha dato vita al processo di zombieficazione che, ormai, risulta compiuto. In un’epoca di cambiamenti climatici e consumismo sfrenato, Jarmusch sente l’apocalisse sempre più vicina, e non è certo un caso che il film termini con una frase piena di sdegno e disgusto per la situazione attuale: “Che mondo di merda!”.
Ancora una volta, tuttavia, la fiducia del regista americano viene riposto in alcune precise figure poste ai margini della società: da una parte un eremita, che vive in pieno connubio con la natura, si dedica alla lettura di Moby Dick e capisce sin dall’inizio cosa stia succedendo nella piccola cittadina; dall’altra, tre ragazzini all’interno di un riformatorio, gli unici, assieme all’eremita Bob, che sembrano capire, con grande precisione scientifica, a cosa condurranno le sconsiderate azioni della multi-nazionale. Come in “Solo gli amanti sopravvivono”, sono solo gli emarginati coloro che riescono a vedere più in là del momento presente e che dimostrano una sensibilità e un’acutezza al di fuori dell’ordinario. Ma Jarmusch sembra aver perso ogni speranza. Non bastano un eremita acculturato e tre ragazzini con grande consapevolezza scientifica a salvare l’umanità dall’apocalisse imminente.
Lo scenario dipinto da Jarmusch nei due film citati, dunque, è sicuramente pessimistico e pressoché privo di barlumi di speranza. Questo non significa, tuttavia, che siamo necessariamente costretti ad accettare acriticamente una tale prospettiva. L’artista, e quindi anche un regista cinematografico, è un creatore e il suo compito è quello di punzecchiare e stimolare alla riflessione il proprio pubblico. Non è detto, poi, che tutti debbano giungere alle stesse conclusioni tratte dall’opera. Ma se in seguito alla visione di questi due film ci troviamo a riflettere di massificazione della società, decadenza dei valori morali e morte dell’arte, significa che l’opera ci ha colpito in profondità e ha risvegliato in noi riflessioni che, in quanto esseri umani, ci riguardano direttamente. Ciò che è importante è stimolare un atto di pensiero e non necessariamente concordare sempre e comunque su quello che un regista ci propone. Questo è ciò che fa la grande arte, e questo è ciò che fa Jim Jarmusch, un grande artista, per l’appunto.
Allo stesso modo, non va accettato in modo acritico nemmeno un pensiero come quello proposto in questa sede. Nessuno possiede le chiavi per aprire i cancelli della Verità, e pertanto qualsiasi riflessione o interpretazione può essere suscettibile di confutazione o di assenso. Sta al singolo individuo formarsi una propria opinione e cercare anche altri chiavi di lettura che possano risultare parimente interessanti. Il pregio dei grandi film, infatti, è quello di non sbattere in faccia allo spettatore una verità monolitica e già confezionata. Le opere di Jarmusch non esulano da questo principio: ogni immagine, ogni ripresa, ogni scelta musicale e di montaggio, sono pregne di un simbolismo e di una densità di significato tali che ad ogni visione la nostra comprensione di questi film si raffina. E magari anche la nostra concezione di certe tematiche risulterà profondamente trasformata e arricchita. Forse Jarmusch sarebbe d’accordo col dire che è proprio grazie all’arte, al cinema e alle entusiasmanti discussioni che ne scaturiscono che possiamo trovare la chiave di volta per essere un po’ meno zombie, e un po’ più vampiri.
* Pietro Phelan è un ex alunno del Liceo Vallisneri, sezione A.