di Lisabetta Raffaetà
Sfogliando le riviste del National Geographic alla ricerca di una foto che trattasse il tema dell’inquinamento in Oriente, mi sono imbattuta in questa immagine. Un’immagine che ha come scavato nel mio cuore, mi ha rapita, affascinata e mi ha fatto soffermare su ogni suo piccolo particolare.
Sola, nel silenzio assoluto del mattino, una donna avvolta da uno scialle attraversa il fiume Gange per mezzo di un ponte, un ponte dilaniato, che non è realmente un ponte, ma un ammasso di pietre, terra, residui e plastica.
Il cielo quasi diafano riflette la sua luce nelle acque del Gange quasi a rendere surreale questa fotografia.
La donna percorre cautamente il ponte, lei è sola in mezzo a questa natura violentata e maltrattata, proprio come lo è la vita della maggior parte delle donne dell’India.
Questo ponte non è solo un ponte, ma un vero e proprio sentiero della vita, pieno di imprevisti e pericoli, ma la donna lo attraversa tutti i giorni, questa è la sua vita e non si ferma sulla sponda, non si arrende.
Nel guardare questa foto quello che mi ha colpito è stato il grande senso di solitudine che invade tutta l’immagine, ed il silenzio diventa quasi un grido che esce dall’immagine stessa.
Sì, è proprio così, quello che mi cattura e mi appassiona è quello che non si vede e non si sente e quello che voglio vedere non è solo l’immagine di un ponte di plastica e di rifiuti che soffoca le acque del Gange, ma la stoffa rossa che avvolge il corpo della donna indiana quasi a creare una macchia di colore in un paesaggio grigio e senza anima, perché in cuor mio vorrei tanto che quella donna, con la sua piccola veste rossa, diventasse il simbolo della vita che non si arrende, delle donne che nonostante tutto vanno avanti e della speranza che muove il mondo.