Il grido di battaglia delle proteste contro il regime iraniano
di Riccardo Orgolesu*
Zan, Zendegi, Azadi. Donna, Vita, Libertà. Slogan le cui origini sono da ricercare nel movimento di liberazione curdo; oggi, invece, grido di battaglia delle proteste contro il regime iraniano, nate in seguito alla vergognosa uccisione della ventiduenne curda Mahsa Amini, colpevole di aver indossato male il velo, e per questo brutalmente picchiata dalle autorità.
Era il 13 settembre; Zhina (questo è il nome curdo della donna, con cui sarebbe preferibile riferirsi a lei) si trovava in vacanza nella capitale, Teheran; come sempre, indossava l’hijab, imposto dalla legge iraniana a tutte le donne nel paese in seguito alla rivoluzione islamica del 1979. Tuttavia, qualcosa non andava. Forse era rimasto fuori un capello, o forse l’hijab non era abbastanza aderente. Zhina è stata arrestata e picchiata dalla polizia della sicurezza morale, una sorta di “psicopolizia” orwelliana, nata nel 2000 proprio per assicurarsi che l’aspetto delle donne sia conforme alle leggi della Shariʿah. Dopo due giorni di coma, Zhina è morta in ospedale.
Il mondo ha seguito con massima attenzione la vicenda, fin dal pestaggio, e le voci delle iraniane e degli iraniani non hanno tardato a farsi sentire. La rivolta è scoppiata nel giro di pochi giorni, e ha fin da subito interessato numerose città e importanti centri di potere del Paese.
A Kerman, una ragazza si taglia una ciocca di capelli, tra gli applausi della folla; il gesto sarà poi ripetuto diverse volte, in segno di protesta e solidarietà, da decine di donne in giro per il mondo.
A Teheran le piazze sono piene, le autorità cercano di disperdere la folla coi cannoni ad acqua; una donna si toglie il velo e si piazza di fronte a loro, in segno di sfida; è il 19 settembre.
Il 23 i manifestanti, a Mashad, danno fuoco alla statua di Morteza Motahari, clerico sciita e teorico-fondatore della Repubblica Islamica d’Iran.
Le proteste sono diventate via via più dure, e le richieste più forti: come ha detto, in un’intervista, Shahram Khosravi, professore di Antropologia sociale all’Università di Stoccolma ed esperto della società iraniana, “la questione non è il velo: si tratta dell’ingiustizia contro le donne”, ma non solo, perché ormai il movimento non si limita soltanto a chiedere più diritti per le donne e a combattere il “sessismo istituzionalizzato”, ma “si sta anche concentrando su altre ingiustizie, come quelle di classe, contro i migranti irregolari o le minoranze etniche”, perché “quando le donne si ribellano lo fanno per tutti quanti, non solo per loro stesse”. La questione non è nemmeno religiosa, non si scende in piazza contro l’Islam, perché accanto alle donne che si tolgono il velo ci sono numerose donne che lo tengono, per scelta di fede, pur manifestando con lo stesso ardore.
I manifestanti puntano al rovesciamento del regime iraniano. Infatti, sebbene il fenomeno sia di una portata mai vista prima nel Paese e interessi una grossa fetta della popolazione, di tutte le età e classi sociali, tuttavia la maggior parte dei manifestanti è formata da giovani e giovanissimi (l’età media di chi è sceso in piazza è 15 anni).
Una generazione che, riportando le parole di Khosravi, “è cresciuta dopo il fallimento dell’era riformista e non ha nessuna speranza in questo modello politico”, e quindi non può che puntare al completo disfacimento del regime con un’opera rivoluzionaria.
Occorre aprire una parentesi: qual è il sistema di governo in Iran? Sebbene non si possa definire interamente una dittatura, è certamente fuorviante definirlo una democrazia.
In seguito alla rivoluzione islamica del 1979, si può dire che i due sistemi coesistano. La nuova costituzione sanciva due centri di potere: da una parte la Guida Suprema, una figura teocratica sempre in mano agli ultra-conservatori, estremisti sciiti; dall’altra il Primo Ministro.
Fin dalla rivoluzione, e ancor più durante gli anni ’80, con la guerra tra Iran e Iraq, la Guida Suprema si era affermata ben al di sopra della componente democratica. La nuova Costituzione era stata scritta più per stabilire il ruolo centrale dell’ayatollah Ruhollah Khomeini che per creare un impianto stabile e duraturo, come ha scritto in un articolo su Limes Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, un gruppo di esperti che si occupa di temi legati alla politica, alla sicurezza e all’economia del medio Oriente.
Tant’è che, dopo la morte di Khomeini e l’abolizione della carica di Primo Ministro, nel 1989, si consolida un nuovo sistema, ancora oggi in piedi, che vede l’Iran diviso in due poli: quello teocratico, la stessa Guida Suprema di cui abbiamo parlato, sempre in mano al partito sciita ultra-conservatore; quello democratico, il Presidente della Repubblica, che assume la maggior parte delle funzioni del Primo Ministro (quindi è capo del governo, come il nostro Presidente del Consiglio) e viene espresso dal risultato delle elezioni che si tengono ogni quattro anni.
La maggior parte delle volte, il Presidente della Repubblica è stato espresso dal partito ultra-conservatore, e ha quindi attuato politiche anti-democratiche, censure e limiti alla libertà di stampa e associazione. Tuttavia, nel 1997 è stato eletto, in seguito anche per un secondo mandato, il riformista Mohammad Khatami, che ha agito in senso opposto.
In ogni caso, le elezioni non sono certo pienamente democratiche, dato che i candidati devono essere approvati dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione, formato da sei teologi, indicati direttamente dalla Guida Suprema, e da sei giuristi, indicati dal potere giudiziario, che pure è sotto lo stretto controllo della Guida.
Il Consiglio, che dunque è piena espressione della Guida Suprema, può approvare o scartare arbitrariamente qualunque candidato, e usa questo potere per estromettere numerosi candidati riformisti o moderati (i due principali schieramenti di opposizione agli ultra-conservatori).
Tuttavia, il sistema, per reggere, ha bisogno che gli iraniani lo accettino: è per questo che alcuni candidati di questi schieramenti vengono approvati, e che in campagna elettorale si allenta la stretta sulla libertà di parola, tanto che è possibile, per i candidati, criticare il regime.
In ogni caso, quando mi riferisco al regime, parlo di entrambe le istituzioni, dato che attualmente il Presidente della Repubblica è Ebrahim Raisi, esponente del partito ultra-conservatore, e la Guida Suprema si trova comunque più in alto nella scala gerarchica (per fare un esempio, ha in mano l’apparato militare del Paese).
Ma ora torniamo a noi.
La repressione a opera del governo è dura: il 21 settembre, le autorità iniziano a sparare sui manifestanti. Il 24 e il 25 iniziano a imprigionarli, nella prigione di Evin, a Teheran, e in un edificio a Karaj che funge da “carcere provvisorio”. Proprio a Karaj era stata uccisa a colpi di pistola Hadis Najafi, un’altra ventiduenne curda diventata simbolo delle proteste.
Al 13 dicembre (sembra che non ci siano dati affidabili più recenti), secondo l’ISPI, le vittime tra i manifestanti ammontavano a 493, per la maggior parte appartenenti alle minoranze etniche del Kurdistan e del Belucistan, e di cui quasi settanta minori; gli arresti, invece, superavano i 18.000, ed erano state eseguite due di diverse condanne a morte: Mohsen Shekari e Majid Reza Rahnavard, entrambi ventitreenni, sono stati giustiziati la prima metà di dicembre per moharebeh, “guerra contro Dio”.
Sono più recenti le notizie di nuove condanne a morte, dell’uccisione di Mehdi Zare Ashkzari, che aveva studiato a Bologna, e degli arresti di diversi giornalisti, almeno una settantina dall’inizio delle manifestazioni, che hanno provato a raccogliere informazioni in prima linea
Ma l’utilizzo del pugno di ferro per reprimere le rivolte non fa che testimoniare la crisi del regime: almeno 163 sono le città coinvolte, e i nuclei di protesta superano il migliaio. Le opere di repressione sono affidate a un corpo paramilitare speciale, i basij, perché ci sono già stati episodi di diserzione nel corpo di polizia normale.
Ogni donna stuprata e uccisa, ogni giovane, bambino o bambina, assassinato dal regime, come Saha Etebari, raggiunta da un colpo di pistola a dodici anni, il giorno di Natale, sono tutti un nuovo soffio che alimenta il fuoco della protesta.
Il regime sta subendo colpi importanti, e a dimostrarlo ci sono le critiche di diversi esponenti di spicco dello stesso clero sciita, come gli ayatollah (titolo conferito ai più grandi teologi e interpreti del corano, e che nel regime iraniano porta un certo peso politico) Morteza Moghtadai, Mohammadali Ayazi e Mahmoud Amjad, che hanno apertamente criticato le condanne a morte per moharebeh.
Per di più, i tentativi del regime di insabbiare la questione, anche interrompendo l’accesso a internet e ai social media, sono miseramente falliti, e il governo iraniano ha gli occhi del mondo puntati addosso.
Continua a essere uno dei più visualizzati in rete l’hashtag #MahsaAmini, che accompagna video di proteste, di donne che si tolgono e bruciano il velo, o si tagliano ciocche di capelli. Numerose sono le manifestazioni di solidarietà per le donne iraniane nelle piazze di tutto il mondo, al grido di Donna, Vita, Libertà.
Anche se non sono ancora arrivate ferme condanne o prese di posizione da parte dei governi occidentali, L’Onu ha approvato una mozione che ha espulso l’Iran dalla Commissione sulla Condizione delle Donne (non è chiaro perché fosse presente in primo luogo, ma tant’è).
Dopo quest’ultimo schiaffo, sembra che a supportare il regime resti solo una manciata di Paesi (sono stati 24 in totale ad astenersi o votare contro la mozione), tra cui la Russia e la Cina, che supportano l’Iran anche militarmente e da tempo pare cerchino di erigere un fronte anti-occidentale, autocrazie contro democrazie.
La situazione mostra chiaramente che il regime è in difficoltà: pur reagendo duramente, non riesce a reprimere le rivolte; si trova costretto, come a dire “guardate che facciamo sul serio”, ad autorizzare ufficialmente le forze dell’ordine a usare la violenza sui manifestanti (come se prima non lo facessero); si trova contro un grande esercito di giovani, infiammati dal desiderio di libertà, che non hanno un briciolo di fiducia nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni.
Anche se ha la forza militare, il regime non è più legittimato a governare. E lo dimostra la guerriglia urbana che infiamma le piazze; lo dimostrano le migliaia di donne, studenti, giovani, bambini e bambine che protestano; lo dimostra, per l’appunto, la portata delle azioni di repressione, che pure non sembrano scalfire la rivolta.
Altro segno di debolezza è la dichiarazione del 3 dicembre del procuratore generale della Repubblica islamica Mohammad Jafar Montazeri sull’abolizione della polizia morale, forse un tentativo di sondare la reazione dei manifestanti a un’eventuale concessione, dato che l’organo non si trova sotto il controllo di Montazeri, ma del ministero dell’Interno, da cui non è arrivata alcuna conferma. Sembra, anzi, il contrario, dato che la polizia ha ripreso proprio in questi giorni l’attuazione del programma Nazer, “sorveglianza”, che prevede l’invio di un SMS minaccioso, una sorta di promemoria, alle donne che vengono avvistate in auto senza l’hijab.
In ogni caso, si sarebbe trattato di una concessione tutto sommato modesta, tenendo in considerazione la giovane età della polizia morale, che, come detto, è stata istituita nel 2000, e non è affatto indispensabile. E infatti, mentre l’Occidente già festeggiava per la presunta abolizione dell’organo, i manifestanti non hanno ceduto un solo centimetro al regime.
Anche se dovesse fallire la rivoluzione politica, anche se le rivolte dovessero finire, la situazione non tornerà più la stessa, perché in questi mesi una vera e propria rivoluzione culturale ha interessato tutto il popolo iraniano, che è stanco di abbassare la testa di fronte ai continui soprusi di un regime autoritario, teocratico, con una briciola di democrazia qua e là, e che sputa in faccia ai diritti umani che noi diamo più per scontati. Gli iraniani e le iraniane non ci stanno più, e, senza di loro, il sistema non può funzionare.
Resta solo una questione: quale sarà la reazione dell’Occidente? Continuerà a dar voce ai cittadini iraniani, ad amplificare il più possibile l’eco mediatica, oppure, nel giro di qualche mese, si stancherà e guarderà dall’altra parte, come ha sempre fatto, così come con il conflitto arabo-israeliano (e la persecuzione dei palestinesi a opera di Israele), con la presa di potere dei talebani in Afghanistan, con il massacro dei curdi in Turchia a opera di Erdogan, con i lager libici (che, pure, l’Italia addirittura finanzia)? È mai possibile che i nostri governi non possano prendere una posizione netta, condannare il regime e dirsi dalla parte dei manifestanti?
Eppure, sembra proprio che alla fine ci dimenticheremo anche di questo, come abbiamo dimenticato tutto il resto. Perché è da tempo immemore che, per l’Occidente, la guerra fa male solo quando ce la si trova sotto casa (e la guerra di Putin ne è un esempio), e causano soltanto sporadici episodi di indignazione, salvo poi essere dimenticati, i massacri di minoranze etniche, i morti in mare, le violazioni sistematiche di diritti umani, i regimi che schiacciano la vita e la libertà degli esseri umani.
Riccardo Orgolesu frequenta la classe I B del Liceo classico Gramsci di Olbia