di Michel Puccini
Una cosa che accomuna e ha avvicinato tutti gli uomini nel corso della storia è proprio il desiderio di vivere pienamente liberi e lontani da quelle imposizioni che ne minavano la possibilità di agire. Nonostante ciò, l’uomo ha accettato delle condizioni, anche a discapito del proprio “io”, per mettere davanti la collettività e rientrare in un disegno di leggi volute dalla civiltà a cui apparteneva. Talvolta queste leggi si sono però rivelate ingiuste, improduttive, se non addirittura dannose per la società stessa. Eppure valori come la schiavitù, le discriminazioni o le separazioni di classe sono stati per moltissimo tempo valori portanti della nostra cultura. Tra tutti i diritti di cui l’uomo dispone secondo il liberalismo quello principe è proprio la vita. Essa ci permette di rimodellare il mondo circostante e di diventare artefici del nostro destino.
Ma la vita è davvero un diritto universale?
Molti sono i testi all’interno della storia in cui la vita dei cittadini non viene messa sullo stesso piano bensì vengono assegnati premi o punizioni differenti in base alla classe sociale a cui si apparteneva. Nemmeno la famosa “legge del taglione” del Codice di Hammurabi, conosciuta per antonomasia per infliggere una punizione pari all’offesa secondo il principio “occhio per occhio, dente per dente”, era uguale per tutti e consentiva di applicare la pena di morte nei confronti di un omicida solo se la vittima uccisa era un uomo libero, appartenente almeno alla sua stessa classe sociale o superiore.
La legge, tutt’oggi, non risulta “uguale per tutti” come scritto nelle aule dei tribunali, a più riprese figure in possesso di notevoli abbienti disponibilità economiche, spesso colpevoli di reati anche gravi come azioni violente nei confronti delle persone o del mondo che le circonda, rimangono impunite per mezzo del loro denaro, sufficiente a bloccare le indagini o utile per corrompere i magistrati coinvolti nei processi; tutto ciò ha contribuito più volte a scatenare l’ira del popolo e delle classi medie che, indignate, hanno richiesto una giustizia meno flessibile e meno corruttibile, unita a pene più severe. Tra queste la condanna capitale è stata quella su cui si è dibattuto di più.
Mai come ora negli ultimi decenni siamo tornati a parlare del fatto se fosse giusto o meno applicare questa sentenza nei confronti dei criminali e in particolare verso quale categoria di questi ultimi. Alcuni sostengono che vada praticata soltanto per il compimento di “Attentati allo Stato” o in caso di alto tradimento, come nel caso del Presidente, altri ancora la vorrebbero come pena ordinaria per reati più comuni come le rapine o gli omicidi.
Attualmente la pena di morte è in vigore in ottantaquattro Stati: più della meta di questi la utilizzano in via ordinaria, come Egitto, Stati Uniti, Giappone, Bielorussia, India, Cina.
Una parte consistente di questi l’ha invece abolita “de facto” in quanto malgrado sia ancora prevista secondo l’ordinamento giuridico una condanna non viene eseguita da più di dieci anni e sono in corso moratorie per eliminarla.
Nell’Italia divisa fra le potenze straniere, il papato e i vari ducati e granducati, durante il periodo in cui l’Europa fu attraversata dell’Illuminismo, il primo luogo in cui venne abolita fu la Toscana, sotto Pietro Leopoldo I, il 30 novembre 1786. Il tema è stato trattato da numerosi intellettuali del periodo, primo fra tutti Cesare Beccaria che ha influenzato molti con le sue idee, tra cui il re stesso sulla scia degli altri sovrani illuminati presenti in Europa.
Nel suo trattato “Dei delitti e delle pene”, pubblicato nel 1764, traccia un’ampia panoramica sulla tortura e sulla condanna capitale, dimostrando l’inutilità di entrambe.
In uno stato in cui il governo è saldamente nelle mani dell’esecutivo e il denaro non è capace di comprare autorità e leggi, ma soltanto piaceri, non vi è necessità di distruggere la vita di un cittadino a meno che questa non risulti pericolosa per il mantenimento dell’ordine pubblico. Beccaria riconosce però l’utilità della pena di morte in condizioni di anarchia, a dimostrazione del fatto che la condanna capitale viene interpretata come debolezza dello Stato che non solo fallisce nel gestire la società ma anche i cittadini stessi.
Sono proprio questi ultimi che forniscono la dimostrazione di come mai sia ingiusta per l’autore: lo spettacolo di un uomo privo di libertà, la cui vita si riduce al pari di un animale, appare più crudele e permette di far scontare in modo più adeguato la condanna allo “scellerato”, così sono chiamati i criminali da Beccaria.
La morte è semplicemente un violento momento di passaggio, sono le gocce che lente, ma persistenti, scavano la roccia e annientano l’animo umano, percosse deboli ma quotidiane sono quindi il mezzo utilizzato per scontare la condanna. Non è l’intensità della pena che va a spaventare l’uomo, ma la certezza di essa.
La posizione del filosofo milanese coincide a pieno quindi con la cultura del periodo, la luce della ragione dimostra come non seguire un istinto grottesco come uccidere si riveli più efficace di seguire la cieca rabbia e di punire, trucidando il condannato. Il suo pensiero è caratterizzato inoltre da una forte vicinanza al liberalismo, dove la tolleranza e il centralismo della figura umana sono predominanti, in un’ottica ormai lontana da quella Medioevale dove l’uomo doveva vivere secondo la dottrina del “Memento mori”: le persone sono più spaventate dalla “non vita” o dal vivere come schiavi piuttosto che morire, in un’ottica di difesa delle proprie libertà personali, sull’esempio di Catone Uticense che di Savonarola.
Per quanto rivoluzionarie per il periodo alcune idee dell’Illuminismo oggi ci possono risultare assurde e possono toccare la nostra sensibilità, tra queste in primo piano il modo di far vivere la sentenza al condannato.
Per comprenderle pienamente dobbiamo calarci all’interno del contesto storico sociale in cui vivevano Beccaria e i suoi contemporanei: all’epoca il carcere non aveva funzione rieducativa o correttiva ma esclusivamente quella di punire, la nostra visione della detenzione deriva da moderne interpretazioni curate da personaggi come Vittorino Andreoli che combattono e condannano l’immobilità del carcere esclusivamente punitivo.
Potremmo dedicare un intero trattato sulle svariate modalità in cui la condanna capitale è stata applicata nel corso della storia o su come viene praticata oggi, ma ritengo più utile soffermarci sul contestualizzarla in una società democratica.
La pena di morte a tutti gli effetti legalizza, permette e concede il diritto alla magistratura, uno dei tre organi dello Stato, di espropriare il cittadino della sua vita, il bene più prezioso. Diventa quindi un’arma potentissima in regimi autocratici per sbarazzarsi di dissidenti, avversari politici e personaggi scomodi al mantenimento della tirannia in carica, dimostrando così il suo più grande limite, l’irreversibilità: una volta eseguita non si può più tornare indietro e non vi sarà più somma di denaro che possa restituirci un potenziale innocente che viene condannato ingiustamente.
Esempi di ciò sono il tentato avvelenamento del giornalista russo Naval’nyj, avversario politico di Putin, scappato dal braccio della morte per mezzo di una rapida fuga in Germania dove è stato curato dal tentativo di avvelenamento.
Paradossalmente, malgrado non mi definisca a favore della pena di morte, concordo e legittimo la domanda che molti sostenitori pongono per provocazione ai suoi oppositori: come puoi lasciare in vita una persona che ha commesso un reato come un infanticidio, una strage o una violenza su un minore? Dove risiede l’umanità in questo essere?
La risposta è semplice, non vi risiede, ma concedere al carnefice veloce trapasso è
altrettanto ingiusto.
Malgrado la nostra società porti ad avere questa visione rieducativa del carcere altri grandi
filosofi come Kant o Hegel ci aiutano a non dimenticare come il male possa essere una naturale inclinazione dell’uomo. L’uomo nasce sapendo già che cosa è bene e che cosa è male e decide di farlo a prescindere dalle delle paure che lo circondano, dimostrando così come la pena di morte non si riveli un’efficace deterrente in quanto dove è in atto per reati violenti questi avvengono in proporzioni maggiori, o asseconda delle rassicurazioni che riceve, dimostrando così la stessa poca efficacia per la funzione rieducativa.
La condanna non può dunque “recuperare”, come il criminale ha percorso il male una volta lo potrà fare infinite volte, come diceva Nietzsche deve punire in chiave extra-morale il cagionatore di danni.
L’isolamento, la “non vita”, il decreto sul carcere duro della legge italiana sono armi più potenti di una sedia elettrica o un’iniezione letale.
Gli stessi mafiosi, costretti al noto “41 bis”, sono la migliore dimostrazione di ciò: la loro posizione li forza a collaborare con la giustizia, a “rimpiangere” la perdita della propria libertà e a soffrire delle loro azioni, divorati dall’assordante silenzio della loro cella, in una sorta di contrappasso Dantesco, proprio come loro hanno divorato le anime delle persone che hanno annientato con il loro male.