Dall’origine della disuguaglianza al contratto sociale13 min read

di Gabriele Billet

Il Discorso sull’origine della diseguaglianza fra gli uomini è stato scritto da Jean-Jacques Rousseau in occasione di un concorso bandito dall’Accademia di Digione nel 1754 sul tema: «Qual è l’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini e se essa è autorizzata dalla legge naturale»

Nell’occasione Rousseau non venne premiato, ma il Discorso fu pubblicato ad Amsterdam nel 1755. Si tratta di uno scritto di poco più di 100 pagine, composto da una dedica dell’opera al governo della città di Ginevra, città natale di Rousseau, cui l’autore si sentì sempre profondamente legato, nonché da una breve prefazione e da due parti.

Nella prima parte del Discorso, Rousseau presenta l’ipotetica condizione dell’uomo nello stato di natura (non si tratta infatti di una condizione storica effettivamente verificatasi, ma solo un’ipotesi di lavoro teorica), spiegando la natura originaria dell’uomo ed il modo in cui, lentamente, questi se ne è allontanato, mostrando le cause della sua corruzione.

Nello stato di natura l’uomo è come un animale che vive per soddisfare i bisogni semplici; infatti  “spogliando questo essere così costituito di tutti i doni soprannaturali che egli abbia potuto ricevere, e di tutte le facoltà artificiali che ha potuto acquistare soltanto mediante un lungo progresso, e considerandolo, in una parola, quale è dovuto uscire dalle mani della natura, vedo un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri, ma, tutto sommato, quello organizzato più vantaggiosamente di tutti; lo vedo che si riporta sotto una quercia, si disseta al primo ruscello, trova il suo letto ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il pasto ed ecco soddisfatti i suoi bisogni…………” (pp. 39-40)  

Lo stato di natura si configura come uno stato in cui gli uomini sono indipendenti, bastano a loro stessi e conducono una vita nomade e vagabonda, in un ambiente in grado di garantirgli l’indispensabile all’autoconservazione (non c’è desiderio di socialità).

Infatti, “l’uomo selvaggio, priva di ogni sorta di lumi, non prova che passioni di quest’ultima specie: i suoi desideri non vanno al di là dei bisogni fisici; i soli beni che egli nell’universo sono il nutrimento, una femmina e il riposo; i soli mali che tema sono il dolore e la fame. Dico il dolore e non la morte …” (p.49).  

Un uomo, quello di natura, che, secondo Rousseau, non è dunque guidato dalla ragione (caratteristica piuttosto dell’uomo civilizzato e raziocinante, che vive in società), ma che ha solo passioni, passioni moderate e limitate; i suoi desideri, infatti, non oltrepassano i bisogni fisici e naturali e per soddisfarli poteva essere indipendente ed autonomo, non aveva necessità degli altri uomini bastandogli le facoltà naturali.    

Nello specifico Rousseau individua due principi naturali e prerazionali che guidano il selvaggio, l’uomo nello stato di natura: l’amore di sé e la pietà.

L’amore di sé è il sentimento di autoconservazione che governa l’uomo prima della costituzione della società: esso lo guida nella ricerca di ciò che è utile alla sua sopravvivenza e non genera mutua ostilità tra gli uomini, in quanto è bilanciato dal sentimento della pietà, cioè dal sentimento di ripugnanza che si prova nel veder soffrire i propri simili.

Secondo il filosofo la pietà è un sentimento naturale, che, temperando in ogni individuo l’attività dell’egoismo, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie. E’ la pietà che ci porta senza riflettere a soccorrere coloro che vediamo soffrire………”  (p. 63); infatti “…è ridicolo l’immaginarsi i selvaggi che si sgozzano incessantemente per soddisfare la loro brutalità, per il fatto che questa opinione è direttamente contraria all’esperienza, e che i Caraibi, quello che fra i popoli esistenti si è meno allontanato dallo stato di natura, sono proprio i più pacifici e i meno soggetti alla gelosia ……” (p. 66)

Gli uomini nello stato di natura sono dunque uguali tra loro, differenziandosi solo per le caratteristiche fisiche. Per Rousseau la diseguaglianza inizia, quindi, non nello stato di natura originario, ma nel momento in cui gli uomini, originariamente isolati in natura, cominciano a riunirsi in società, per uno spontaneo aggregarsi degli esseri umani di fronte alle avversità dell’esistenza quotidiana e ancor più in occasione di catastrofi naturali.

Il passaggio alla vita sociale è del resto per l’uomo il frutto di una evoluzione dovuta ad una pluralità di cause accidentali, incontrate nella quotidianità della vita e rispetto alle quali l’uomo affina le proprie capacità e si perfeziona sempre più.

La vita associata comporta però secondo il filosofo la degenerazione del naturale amor di sé nel corrotto e distruttivo amor proprio, ed inizia così un processo che porta l’uomo, che si allontana dallo stato di natura, a essere come lo si vede attualmente nella società civile.

Infatti, non appena gli uomini si trovano a vivere in società, questi cominciano inevitabilmente a confrontare le reciproche condizioni; agli uomini non basta più il necessario, ma ognuno, spinto dall’amor proprio, comincia a desiderare di possedere più degli altri e in generale di primeggiare su di loro, in una competizione che genera conflitto.

Sui bisogni naturali prevalgono infatti i bisogni artificiali, questi determinati dalla rivalità con gli altri, e ai sentimenti di solidarietà e di pietà si sostituiscono le ambizioni egoistiche. Gli uomini iniziano così a differenziarsi.

La disuguaglianza non è dunque, secondo Rousseau, congenita nell’uomo, non è dello stato di natura, in cui l’uomo vive libero ed uguale, in uno stato di reciproca indifferenza, differenziandosi solo per il fisico e gli aspetti naturali, ma nasce quale conseguenza della socialità.

Nella seconda parte del Discorso sull’origine della diseguaglianza il filosofo si concentra, quindi, sull’origine della disuguaglianza civile (e quindi su come si passa dallo stato di natura alla società civile), che è l’effetto dell’evoluzione sociale dell’uomo.

La diseguaglianza civile è determinata per l’appunto dal costituirsi della società, e consiste nei vari privilegi che alcuni godono a danno di altri, come l’essere più ricchi, più onorati e più potenti, e che non ha nulla a che vedere con la natura, non trovando ragione d’essere nella diseguaglianza naturale.

Una diseguaglianza, quella che nasce con la società, che crea dipendenza tra gli uomini, che riduce gli uomini in catene.

Questa diseguaglianza tra gli uomini, che nasce nel vivere sociale, trova d’altra parte la sua principale manifestazione nella nascita della proprietà privata.

“Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire: “Questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!” Ma c’è molto motivo di credere che allora le cose fossero già giunte a un punto tale da non poter continuare così com’erano; perché questa idea di proprietà dipendente da molte idee che si sono potute formare solo successivamente, non nacque improvvisamente nello spirito umano (p. 72).

La proprietà per Rousseau non è un diritto naturale (come per Locke). Essa nasce per l’appunto con un atto di usurpazione, con cui un individuo sufficientemente astuto ha recintato una porzione di terreno, dichiarando il proprio esclusivo diritto su di esso, e trovando al contempo altri uomini sufficientemente ingenui da credergli, senza comprendere l’arbitrarietà di quel gesto.

Su questa iniziale usurpazione, sostiene Rousseau, si fondano tutte le forme di diseguaglianza perché ogni appropriazione privata di beni, per natura comuni a tutti, comporta una corrispondente espropriazione di altri: “Finché gli uomini si accontentarono delle loro rustiche capanne, finché si limitarono a cucire i loro abiti di pelle con spine o reste, ad adornarsi di piume o conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare ed abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre affilate qualche canotto da pescatore o qualche grossolano strumento musicale – insomma, finché non si applicarono se non ad opere che uno solo poteva compiere e ad arti che non avevano bisogno del concorso di parecchie mani, essi vissero liberi, sani, buoni e felici quanto potevano esserlo per natura, e continuarono a godere fra loro delle dolcezze di rapporti indipendenti: ma dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento che era utile a uno solo avere provviste per due- da quel momento l’uguaglianza disparve, s’introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che bisognò annaffiare col sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria. La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione” (p. 80).

Dopo questo iniziale atto di usurpazione, la società risulterà divisa, secondo il filosofo, in ricchi e poveri, e tra gli uni e gli altri sorgerà una inevitabile conflittualità. Infatti, nella lotta per i possedimenti, giocoforza c’è chi prevale e chi soccombema entrambi reclamano il diritto alla proprietàda conquistare in tutti i modi, anche con la violenzaSi inizia così a vivere nel terrore costante, nella guerra di tutti contro tutti di stampo hobbesiano, dove l’uguaglianza e l’indifferenza naturale sono un antico ricordo.

Partendo dall’eguaglianza tra gli uomini nello stato di natura, dalla indifferenza reciproca e dalla felicità in cui l’uomo viveva alle origini, si è arrivati al disordine e al diritto del più forte, cioè a uno stato di guerra permanente tra gli uomini: fu così che poiché i più potenti o i più miserabili facevano della loro forza o dei loro bisogni una specie di diritto sul bene altrui, equivalente, secondo loro, a quello di proprietà, la rottura dell’uguaglianza fu seguita dal più orribile disordine. Fu così che le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, lo sfrenarsi delle passioni di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e cattivi…… fra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante sorse un conflitto perpetuo che finiva soltanto con i combattimenti e le uccisioni. La nascente società cedette il posto al più orribile stato di guerra: il genere umano avvilito e desolato non poteva tornare indietro…” (p.85).  

In questa situazione degenerata, di conflitto continuo e di diseguaglianza, legata al progresso e al vivere nella società civile, vi è d’altra parte la necessità di trovare una soluzione, secondo una necessità sentita in primo luogo dai più ricchi, che hanno di più da perdere; infatti, “……soprattutto i ricchi dovettero sentire quanto fosse loro svantaggiosa una guerra perpetua di cui essi soli pagavano tutte le spese e in cui tutti rischiavano la vita, ed essi soli i beni…. qualsiasi colore potessero dare alle loro usurpazioni, si accorgevano abbastanza bene che il diritto su cui esse venivano fondate era precario e abusivo…” (pag.86)

Sono quindi i ricchi, ad avviso di Rousseau nel suo Discorso, a proporre l’istituzione del diritto e dello Stato, ingannando i poveri perché il diritto e lo Stato non garantiscono tanto la sicurezza degli individui, quanto legalizzano uno stato di fatto di diseguaglianza. Nasce così lo Stato e il diritto quale soluzione per riportare l’ordine e la sicurezza nella società ma in realtà per perpetuare la diseguaglianza. Questo Stato appena nato sarà però fondato su un patto iniquo, che non farà che legittimare nella disuguaglianza imperante lo status dei forti, che ora diventeranno i proprietari, a danno dei deboli, che ora diventeranno o dipendenti salariati o fuorilegge

Lo Stato difende la proprietà privata e protegge così gli interessi di una minoranza di privilegiati rispetto ad una moltitudine affamata. Le leggi dello Stato, il diritto, tuttavia, necessitano di magistrati e capi che le facciano rispettare; con l’istituzione della magistratura la prima importante diseguaglianza tra gli uomini, quella che li divideva in ricchi e poveri, si trasforma così nella diseguaglianza tra potenti e deboli; i potenti si vedono legittimare la loro proprietà (che fino a questo momento detenevano solo per un atto di forza) e i deboli si vedono togliere la loro possibilità di annullare la diseguaglianza.

Lo Stato è così costituito per perpetuare le diseguaglianze, per togliere all’uomo la libertà e la felicità originaria, rendendolo schiavo. Tale situazione, per Rousseau, non si supera con un ritorno allo stato di natura, ormai impossibile da ricreare una volta che si è affermata la società e la civiltà.

La soluzione secondo il filosofo è piuttosto quella di cancellare il patto iniquo che ha dato vita allo stato positivo così com’è diventato, e di scrivere un nuovo “Contratto sociale” sul quale rifondare lo Stato con basi più eque, così da riguadagnare quella libertà e quella felicità proprie della prima età dell’uomo.

Il programma politico di Rousseau, esposto ed approfondito nel Contratto sociale, la sua opera più importante, del 1762, è dunque quello di liberare l’uomo dalla corruzione della vita sociale e di costituire una società di uomini liberi. Nel Contratto sociale Rousseau propone infatti la costituzione dello Stato come corpo morale e collettivo composto da tutti i cittadini, e in cui ciascun membro esercita la propria libertà mediante la volontà generale, che è la volontà di tutti i singoli cittadini in funzione del bene comune.

Secondo Rousseau, del resto, con il contratto sociale gli individui cedono i propri diritti alla società, cioè in sostanza a se stessi, anche se non più concepiti come singoli ma come membri della collettività; una condizione in cui sudditi e sovrano coincidono e ognuno finisce per obbedire a se stesso.

Ma mentre nello stato di natura ognuno persegue il proprio interesse ed è guidato dalla propria volontà individuale, a seguito del contratto secondo Rousseau entra in una società che esprime una volontà generale capace di promuovere gli interessi collettivi.

La volontà generale si distingue dalla volontà di tutti, cioè dalla semplice somma delle volontà: essa al contrario le trascende e rappresenta l’autonoma capacità decisionale della società in quanto corpo politico.

In concreto, occorre stabilire di volta in volta l’effettivo contenuto della volontà generale, che è definito dalla volontà della maggioranza dei membri che appartengono alla comunità; le decisioni della maggioranza devono infatti essere considerate come decisioni dell’intera società, e dunque di ognuno dei suoi membri in quanto tutti hanno accettato fin dall’inizio di cedere i propri diritti alla società e di riconoscersi nella sua volontà generale.

Si tratta del principio su cui si fonda la democrazia che Rousseau teorizza come la migliore forma di governo poiché soltanto essa mantiene la libertà originaria degli esseri umani; in tale regime la sovranità appartiene al popolo posto che soltanto a questo appartiene il potere legislativo, che secondo il filosofo non può essere delegato attraverso forme di rappresentanza: ogni legge deve essere infatti approvata direttamente dal corpo politico, secondo lo schema della democrazia diretta e quindi non con sistemi parlamentari in cui si eleggono rappresentanti in parlamento.

Egli rifiuta la divisione dei poteri.

La democrazia è per il filosofo un antidoto anche contro la diseguaglianza civile, perché in essa prevale la volontà generale che come tale mira all’interesse collettivo della comunità e tende pertanto a limitare le eccessive differenze economiche.            

 

Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Milano, 1992, Feltrinelli editore.

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