Una nuova legge sull’aborto in Polonia mette in dubbio i diritti femminili

di Giulia Cianchi

Nelle scorse settimane in Polonia ci sono state molteplici manifestazioni in numerosissime città ma soprattutto nella capitale Varsavia. La causa scatenante è stata la modifica della legge sull’aborto poiché non è più possibile effettuarlo se vi sono malformazioni al feto, equivalente al 2% degli aborti legali, ma solo in caso di stupro o in caso di pericolo di vita per la madre. Questo fatto farà incrementare pertanto gli aborti illegali facendo correre alle madri grossi rischi.

Le manifestazioni sono cominciate la sera del 22 ottobre e, per il corrente lockdown, la maggior parte dei partecipanti ha quindi protestato munita di mascherina e, quando possibile, con le adeguate distanze. Le proteste erano coordinate dallo sciopero generale delle donne. In moltissimi si sono uniti alle marce delle donne ed è spiccata la presenza di molti giovani, un elemento di rottura con il passato e novità dato che, negli ultimi anni, non avevano mai assunto l’iniziativa delle proteste. Radunandosi nelle strade e nelle piazze, non veniva chiesto solo il diritto all’aborto, ma pretendevano anche la cacciata del governo e non intendevano accettare alcun tipo di compromesso. Il movimento rivendica anche la separazione tra governo e giustizia, come tra stato e chiesa, oltre all’allargamento dei diritti sociali e civili. Le proteste sono state pertanto clamorose ed impressionanti per la partecipazione di non solo donne, protagoniste di tale legge, ma di chiunque, e anche per i gesti compiuti: persone che occupavano le Chiese, marce e scioperi, in particolare il 28 ottobre ce n’è stato uno nazionale delle donne, mentre il 30 ottobre a Varsavia vi è stata una grossa manifestazione con oltre 100mila presenze.

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La categoria è: vivi, sfoggia, posa!

di Nello Benassi

“Vivi, sfoggia, posa” esclama la voce di Billy Porter nella sigla della serie tv ‘Pose’, che ha fatto il suo debutto il 3 giugno 2018 sull’emittente statunitense Fx. Prima ancora di essere frutto della penna di Rhyan Murphy, il re Mida della televisione americana, la serie nasce da un vecchio documentario. Bastano poche ricerche in rete per trovarlo: si chiama ‘Paris is burning’ di Jennie Linvingstone ed è una perla rara di realismo.

La serie ci teletrasporta nel tempo e nello spazio: sono gli anni ‘80 e ci troviamo nel quartiere Harlem di New York. Quando lo scontro razziale era al suo picco massimo e all’orizzonte si sentiva il profumo della rivoluzione che avrebbe travolto la nazione all’alba del nuovo secolo. 

Nella città che non dorme mai non c’era spazio alla luce del sole per le minoranze. Essere neri, ispanici, omosessuali, drag o transgender significava avere una vita tutt’altro che facile.

L’unico posto in cui queste persone potevano brillare e illuminare quell’oscurità a cui erano stati costretti dalla società erano le cosiddette ‘ball room’: piste da ballo in cui le persone, raggruppate in house (famiglie), si sfidavano partecipando alle ball (competizioni) suddivise in categorie. In mancanza di un affetto genitoriale sul quale contare a causa dell’affermata omosessualità, quella house diventa per molti l’unica casa dove sentirsi amati, rispettati e al sicuro. Sarà proprio questo il motivo che nella serie spingerà Blanca, una donna trans di origini ispaniche, a creare la propria ‘house’ con l’intento di salvare i giovani abbandonati a se stessi e dar loro la speranza di un futuro. 

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Questione di responsabilità

di Irene Stefanini

   Che sia colpa dei giovani sconsiderati o degli adulti poco attenti non è importante: il problema del COVID-19 sta tornando ad invadere le nostre strade, a disturbare le nostre vite. I numeri continuano a salire di giorno in giorno e la situazione problematica presente mesi fa si sta ripresentando senza sconti. I bollettini giornalieri, offerti dal Ministero della Salute, ripresentati poi dai vari giornali e notiziari, sono chiari ma molto spesso “artefatti” per dare un certo taglio alla notizia; infatti, per esempio, da quando il numero dei contagiati è di nuovo in crescita si torna a considerare il numero dei guariti, preferendo evitare di riferire invece le terapie intensive. Anche il numero di tamponi effettuati, e il suo rapporto con quello dei risultati positivi, è stato molto discusso. Facendo ben attenzione e prendendo qualche appunto si potrà notare come i test effettuati nel weekend e nei giorni immediatamente successivi sia solitamente più basso di quello di metà settimana; conseguenzialmente anche il numero di contagiati è tendenzialmente minore.

   Sebbene l’Italia sia tra i paesi meno critici e vi si effettuino molti tamponi giornalieri, di più rispetto ad alcuni nostri vicini europei, il confronto con le situazioni a noi limitrofe non è costruttivo: per uscire da questa pandemia bisogna fare il riscontro solo su sé, guardarsi internamente e cercare di risolvere le problematiche; concentrarsi su altri, confrontarsi con chi è messo peggio di noi solamente per sentirsi meno in difetto, è solo un modo per adagiarsi ed evitare di fare i sacrifici che servono. Bisognerebbe smettere di distogliere lo sguardo da ciò che conta davvero: la salvezza del nostro paese e dei nostri cittadini.

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Cancellare la coscienza storica è giusto?

di Ludovico Tambellini

   Negli ultimi tempi, dopo il delitto di George Floyd avvenuto il 25 maggio 2020 a Minneapolis da parte della polizia, è nuovamente venuta alla luce la violenza delle forze dell’ordine e l’impronta fortemente razzista della giurisdizione americana. Paragonabile all’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, l’omicidio di George Floyd non è stato altro che la goccia che ha fatto traboccare il vaso, portando alla creazione del movimento “Black Lives Matter”, ossia una protesta guidata dalla comunità afroamericana sulla falsa riga delle rivolte di Martin Luther King.

   Tutto ciò ha causato maggiore attenzione e sensibilizzazione su determinati temi, che per quanto giusta e dovuta, in alcuni casi può scadere in estremismi che spesso hanno poco a vedere con l’intento iniziale della manifestazione. Difatti una limitata parte dei dimostranti ha ritenuto corretto vandalizzare e distruggere statue che dovrebbero essere portavoce di un America razzista, e tra queste sono finite nell’occhio del ciclone soprattutto quelle rappresentanti Cristoforo Colombo. A dire il vero la sua figura, in particolar modo negli “States”, è spesso oggetto di mala informazione; addirittura il 12 ottobre di ogni anno viene festeggiato un intero giorno dedicato al suo elogio. Di certo la dilagante mancanza di formazione culturale, in particolar modo negli Stati Uniti, non permette la visione chiara del quadro storico pre e post colombiano con conseguente idealizzazione della figura del colonizzatore. Non si possono negare gli indicibili crimini di cui si è macchiato Colombo, ma è giusto cancellare il passato e parte della coscienza storica?

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