Ad Maturandum: lettera ai 100 giorni

Una lettera di Pino, per tutta la classe V A

100 giorni alla Maturità… M A T U R I T À nemmeno fossimo
albicocche in pieno agosto. Un esame a cui ci prepariamo da soli cinque
anni, la grande prova partorita dalle grandi menti del Ministero
dell’Istruzione! 100 giorni: a malapena 2000 ore, 144000 minuti, 8640000
secondi; per recuperare il programma di un anno, scegliere l’università,
vivere tutta la scuola che ci siamo persi. È solo una questione di numeri.

100 come il numero scritto sul bigliettino che getterò nell’Arno. 100
come le pagine per la verifica di sabato. 100 come le spire di uno stupido
solenoide. 100 come i chilometri fatti a corsa per non perdere quel
maledetto pullman delle 7.19. 100 come le ore di alternanza, che ormai
non serviranno più a niente. 100 come i chilometri tra me e il mio
storico compagno di banco, quando a settembre si sarà trasferito
all’UniBo.

E poi una, nessuna, centomila folli idee per l’anno prossimo.
Forse sarà un nuovo glorioso inizio o semplicemente una brusca fine,
come un’onda che cancella le impronte nella sabbia, come una cimosa
polverosa che strappa via tutti quei preziosi segni dalla lavagna.
Siamo come affacciati sulla cima di un grattacielo, abbiamo fatto tanta
fatica per arrivare dove siamo, scalino dopo scalino, e poi
improvvisamente una scossa di terremoto rischia di far crollare l’intero
edificio. Così ti avvii a passo svelto verso il cartello verde con scritto
exit.

Ma correndo ti chiedi se vale la pena scendere pacatamente le scale
d’emergenza, sembra una decisione razionale, tipo ingegneria o
giurisprudenza, e poi “strappare lungo i bordi” fino a guardare con
sereno distacco il palazzo in lontananza mentre si fa sempre più piccolo
e opaco. Oppure, forse, è meglio lasciarsi crollare tutto addosso,
piuttosto che abbandonare il proprio grattacielo. “Beh ma così
moriresti!”, che nella nostra metafora vorrebbe dire essere un triste disoccupato che nel tempo libero gioca ancora coi Pokemon, e sì: che c’è
di male?

Scendere quelle scale fa tanto paura quanto rimanere immobile durante il
cedimento, non sapere cosa ti aspetta dopo, un futuro buio e fumoso,
dire addio, dire addio ad alta voce fa paura.
Ma sotto sotto, un po’ ci attraggono le scale e il vuoto della caduta,
sedotti dall’ignoto, siamo curiosi, che brutta condanna.
E via, verso questi ultimi 100 giorni, che non aspettano altro che essere
riempiti da sdolcinate speranze, mentre il rombo del terremoto e il
cigolio delle scale d'emergenza ci aspettano.

 

Il 2021 edulcorato

di Abramo Matteoli

Plop!

Stappo una bottiglia, me ne verso un po’. Mentre le bollicine chiare iniziano a percorrere il calice penso che è proprio una bella occasione. Poi, tutto sommato, me lo merito proprio.

«Per cosa beviamo?» chiede, giustamente, la voce fuori campo.

«All’anno nuovo. Brindiamo all’anno nuovo» rispondo io; potrei sembrare in ritardo, ma non lo sono per niente. Gennaio è un mese di uggiosa nostalgia, troppa per esser considerato incipit di un nuovo tempo. Gennaio è la pagina bianca che si frappone tra i capitoli di un libro, quella che ci permette di respirare, mentre sbagliamo a scrivere la data e ci permettiamo una finestra di distrazione. Si, gennaio è proprio affollato, c’è troppo su cui riflettere, troppo da promettersi, un freddo cane, e il calciomercato – come se non bastasse.

Arriva, di questi tempi, un momento in cui ti rendi conto che è febbraio. È lì che comincia il nuovo anno, rinnovi la tua consapevolezza che il tempo vola, sbuffi, e un po’ ti prendi male. Mancano meno di due settimane a San Valentino, Sanremo insidia le chiacchere, il tempo per bighellonare giunge al termine. È l’istante in cui la pagina bianca lascia spazio al capitolo nuovo, che inizia perché deve, impreparato, di malanimo.

Ad essere onesto, però, festeggio soprattutto per un’altra ragione. Si è appena concluso un periodo d’affanno indaffarato. E io, posso finalmente riprendere a respirare.

Nonostante mi consideri perfettamente nella media, utilizzo parecchio il mio arrembante telefono per scorrere chilometri di home page. Sia TikTok o Instagram non importa, il dove non interessa, ma interessa il cosa mi propinano quei meravigliosi algoritmi dalle uova d’oro. Quando è iniziato formalmente l’anno nuovo, infatti, sono stato inondato da una moltitudine innumerevole di video-recap atti a consegnare l’anno appena tramontato alla memoria, impacchettandolo per bene. Sapete benissimo a che video mi riferisco, quelli colmi di ricordi felici, intensi tramonti, amici perfetti, sorrisi giovani – che “ricordano” l’anno che è stato. Video che emanano un’aura spensierata, che ti fanno sentire in colpa di esserti svegliato col piede sbagliato.

Ne vidi uno, due, cinque. Iniziai a odiarli. Dieci, venti, cento.

Colori sgargianti, musica angelica, volti allegri, capelli al vento, sguardo al futuro, saudade speranzosa. Sembravano prodotti con lo stampino. Scorrevo e scorrevo ancora. Non c’era mica scampo. Il mio pollice tremava combattendo lo schermo sporco, fuggiva (invano) via dal paragone, che come accade sovente, ne uscì comunque vincitore. Leggi tutto “Il 2021 edulcorato”

Cambiare idea, cambiare opinione, cambiare noi stessi

di Rebecca Giusti

Ci pensate mai che non potremmo mai pensare qualcosa che non pensiamo? Voglio dire, avremmo sempre il nostro stesso modo di pensare, non penseremo mai come gli altri. Non saremmo mai gli altri per tutta la nostra vita, avremmo sempre e solo un solo modo di veder il mondo, il nostro. Sembra limitante come cosa, non trovate? Che se qualcuno ci ha creato, ci ha fatti solo con dei pensieri nostri, senza permetterci di ragionare in altri modi, ma solo con la parola per confrontarci, che comunque è solo un misero tentativo per spiegare il nostro mondo interiore ad un terzo individuo che lo può fraintendere, capire nella maniera sbagliata, non capire proprio o illudersi di avere inteso tutto quello che c’era da sapere su di noi quando in realtà non ne conosce neanche un millesimo. Saremo noi per sempre. Potremmo avere la mente aperta, preferire quella cosa rispetto all’altra dando modo ai dibattiti di farci cambiare idea, avere un odio irrazionale per una certa cosa o persona ma essere pronti a cambiare giudizio: vedremo comunque sempre e solo la nostra realtà personale, con qualche dettaglio che sfuggirà costantemente al nostro minimo e ristretto campo visivo sull’universo. Questo perché siamo noi stessi, non un’altra persona e neanche più persone insieme.

Forse è questo che spinge molte persone a credere di avere il miglior punto di vista su una certa cosa piuttosto che un’altra. A pensare che in politica è meglio fare questo ed agire in un modo, che è migliore la loro opinione su temi di attualità di quella dell’amico, a credere che il loro stile di vita sia quello più equilibrato di tutti, o che agire come ha fatto “lui” sia completamente sbagliato, da condannare, deplorevole. Ma questo perché siamo noi, e pensiamo così, e non potremmo mai pensare qualcosa di diverso da quello che riteniamo giusto. Come si fa a immedesimarci completamente nella testa di un altro individuo che crede che la soluzione migliore ad un determinato problema sia l’opposta rispetto alla nostra? Non si può.

Due poesie di Rebecca Giusti

Quello che raccontiamo

 

Poi tutto quello che raccontiamo

Alla gente

Dove va a finire quando

Non ci riconosciamo più

Ci si convince di no

E se ci si vede

si finge come dei ladri

di non sapere niente

di non capire più da che parte gira il mondo

si finge

per orgoglio, per egoismo, per terrore

di non aver mai amato

si urla: non t’ho mai amato

quando si fa ancora, un cattivo vizio

e il nostro io si rannicchia

dietro queste bugie calde, un caminetto tiepido

in cui possiamo stare fermi senza farci scoprire.

Si conoscono come noi stessi

le paure che divorano l’altro

ma decidiamo comunque di riassumere

queste dimenticanze fasulle

in un saluto smorto. Leggi tutto “Due poesie di Rebecca Giusti”