Il 20 marzo pioveva

di Rebecca Giusti

 

Sono qui scomoda seduta su un gradino. La pioggia corre veloce sui tasti, e inghiotte le lettere. Le mani rotte e sbucciate su alcune parti delle falangi corrono, irrefrenabili come se anche loro volessero essere fredde gocce d’acqua, a formare frasi che nella testa non sono ancora state formulare, discorsi che non si sa dove porteranno. Le scarpe dei passanti scorrono come scene di una proiezione nel campo visivo ridotto all’altezza dove sono seduta e sembra che tutte le persone siano svuotate. Che si siano messe dentro una scatola che hanno lasciato a casa, poi abbiano aperto la porta della loro casa, grande, bella, piccola, distrutta, povera che sia, e siano usciti senza essersi portati dietro. Hanno facce inesplorate e sembra che tutti dicano cose uguali. Cose uguali, cose uguali, cose uguali, cose uguali. Poi passano persone che parlano in altre lingue, che bevono caffè da asporto e si muovono rallentati come se anche il bagnato entrasse nelle gambe e nelle braccia. Passano due signori con una bottiglia di vino pregiato in mano, che si riconosce perché incartato in una brillante stagnola dall’aria costosa. Camminano perplessi come se fosse la prima volta che arrivano in questa piazza e vedono il marmo giallastro della chiesa troneggiare sui piccoli bar indifesi che stanno ai suoi piedi, si guardano intorno e sorridono: sembra che gli piaccia essere in un posto piovoso insieme, muoversi in modo ridicolmente riconoscibile e girare la testa spaesati ostentando la loro estraneità al luogo.    Poi, come se la città fosse loro, uno dei due guarda l’altro con aria maliziosa, come se nascondesse una sorpresa in una delle tasche dell’impermeabile liso che gli si accascia floscio sulle spalle magre. I due aprono il vino e passandosi la bottiglia con mani rotte dal freddo, nonostante sia finito marzo e le primule stiano cominciando a fare capolino nell’erba fresca, bevono insieme.

 

 

Itinerario del mondo alla rovescia

di Valeria Vavalà*

 

Lordine e il disordine del gioco letterario. Dagli amori di taverna di Cecco Angiolieri alle favole al rovescio di Gianni Rodari.

 

Cosa mette insieme i Carmina Burana e i sonetti di Cecco Angiolieri, il Dialogo sopra i massimi sistemi di Galilei, il Don Chisciotte e i giochi di parole di Stefano Bartezzaghi? È il gioco del rovescio, l’improvvisa prospettiva del contrario che ribalta gli orizzonti e fa del presente un tempo di beffa e di rivelazione. In fondo non è il rovescio meno importante di ciò che appare nel suo aspetto consueto. E tutto, proprio tutto si sostiene sul suo contrario.

Esiste qualcosa di universale, valido per tutti, che riesce a far star bene indistintamente ogni persona? Ovviamente no, ma sarebbe bello che esistesse. Può una stessa cosa essere causa del tuo bene e del tuo male contemporaneamente? Esiste un ordine per cui il bene e il male restino ben distinti, vicini o lontani? Penso a quante volte si soffre per aver fatto la cosa giusta… Eppure era la cosa giusta.

La letteratura ci educa alle contraddizioni e ci insegna che non esiste un percorso prestabilito. Ed è bello allora non dover dare spiegazioni a qualcuno, neppure a te stesso del perché mai il lupo sia arrivato al punto da perdersi nel bosco portando la cena alla nonna.

Potrebbe forse essere l’ordine che ci fa arrivare a quella sensazione di pienezza e appagamento, a quei significati ultimi che tanto ricerchiamo?

La consapevolezza che c’è un ordine nel mondo ci conforta. Ci rincuora la consapevolezza che non siamo dispersi in mare, abbandonati alla corrente, al vento, ai tuoni e ai fulmini, ma che c’è una sequenza nel moto ondoso, che quando il Sole si poggia all’orizzonte, lasciando affascinato chiunque lo guardi, lo fa per cullarci nella notte, permettendoci così di osservare le stelle e lasciare che siano loro a darci la via. Leggi tutto “Itinerario del mondo alla rovescia”

Sarà mattina

di Rebecca Giusti

 

Ciò che fa male a noi stessi

Ci fa sussultare, ci spaventa,

ci fa pensare che dovremo strapparci

parti di pelle

ci fa credere che poi

tutto sarà più brillante, che

dopo il sangue

verranno raggi tenui, timidi,

spunteranno papaveri

e sembrerà mattina.

 

 

Lettera per chi ne aspetta una

di Rebecca Giusti

 

Poesia che scrissi l’anno scorso ma che credo sia in tema con la data di oggi: tutti sanno quanto manca all’esame, dove andare il sabato, come organizzare la settimana fra sport e caffè con vecchie conoscenze e amici di sempre, ma che ne sappiamo noi dove saremmo fra quattro o cinque mesi. Mandiamoci lettere, parliamo da soli e riflettiamo su chi siamo stati questo lungo tempo seduti davanti a un tavolo quadrato con fogli sparsi sopra, per capire bene dove stiamo andando, per sapere tremando dalla gioia e dall’ansia chi vogliamo essere. Ricordiamo ciò che abbiamo fatto per arrivare dove siamo, le parti belle, la nostalgia e ciò che ci ha fatto male, che ci ha reso noi aprendoci varchi dentro per vedere meglio quello che ci fa sentire piccoli, indifesi e con la costante voglia di cambiare aria. Ora non è più come quando camminavamo stremati lungo il sentiero chiedendoci quando tutto sarebbe finito e saremmo giunti a uno di quei rifugi poco illuminati che ti permette di fare un sospiro di sollievo, ora il cambiare aria è ciò che ci viene imposto, richiesto, quello che siamo chiamati a fare. Anche se ci allontaneremo, vivremo un sacco di vite opposte e ci guarderemo intorno chiedendoci che fine ha fatto quel nostro passato angosciante e adrenalinico che sembra un racconto letto di sfuggita in un libro lasciato a metà, saremo sempre ciò che questo posto, che le persone che ci sono state accanto e l’aria che abbiamo respirato ha formato. Non cambieremo mai aria davvero. Leggi tutto “Lettera per chi ne aspetta una”