di Rebecca Giusti
Jane si era presa un gatto. Era carino, un po’ anaffettivo ma sorrideva come un umano: inclinava il muso e mostrava i denti come un diavoletto.
Jane credeva che così si sarebbe sentita meno banale. Solo dopo essere arrivata al gattile in uno spoglio quartiere autunnale (era estate, ma quel quartiere aveva un’aria perenne di ottobre dentro di sé), si era accorta che tutti i suoi conoscenti avevano un gatto. Jane si era sentita ancora più banale. Banale perché aveva pensato di poterlo non essere agendo come tutti gli altri, sguazzando e muovendosi scomposta per uscire dalla folla per finire ad ondeggiare e crogiolarsi soddisfatta nella banalità, pensando di essere arrivata sulla sponda dell’isola giusta, che finalmente l’avrebbe staccata da quella uniformità fluida: un posto sicuro a cui tutti sembravano aspirare, non vedevano l’ora di naufragare per raggiungere quel posto deserto, irreale e troppo sfuocato per accogliere anche più di una persona.
Lei aveva un gatto, quindi ormai erano in due. Il gatto e Jane non potevano arrivare entrambi sull’isola, perché se già lei stessa era troppa per quel luogo, addirittura portare il diavolo sorridente era impensabile. Jane pensava che chi non si sentiva banale perché stava con un qualcosa che non lo era, era l’apoteosi di quello che lei rifuggiva affannata. Leggi tutto “Jane si era presa un gatto”