Jane si era presa un gatto

di Rebecca Giusti

Jane si era presa un gatto. Era carino, un po’ anaffettivo ma sorrideva come un umano: inclinava il muso e mostrava i denti come un diavoletto.

Jane credeva che così si sarebbe sentita meno banale. Solo dopo essere arrivata al gattile in uno spoglio quartiere autunnale (era estate, ma quel quartiere aveva un’aria perenne di ottobre dentro di sé), si era accorta che tutti i suoi conoscenti avevano un gatto. Jane si era sentita ancora più banale. Banale perché aveva pensato di poterlo non essere agendo come tutti gli altri, sguazzando e muovendosi scomposta per uscire dalla folla per finire ad ondeggiare e crogiolarsi soddisfatta nella banalità, pensando di essere arrivata sulla sponda dell’isola giusta, che finalmente l’avrebbe staccata da quella uniformità fluida: un posto sicuro a cui tutti sembravano aspirare, non vedevano l’ora di naufragare per raggiungere quel posto deserto, irreale e troppo sfuocato per accogliere anche più di una persona.

Lei aveva un gatto, quindi ormai erano in due. Il gatto e Jane non potevano arrivare entrambi sull’isola, perché se già lei stessa era troppa per quel luogo, addirittura portare il diavolo sorridente era impensabile. Jane pensava che chi non si sentiva banale perché stava con un qualcosa che non lo era, era l’apoteosi di quello che lei rifuggiva affannata.                           Leggi tutto “Jane si era presa un gatto”

Se ti odio è sempre un sentimento

di Rebecca Giusti

   Passava con la sigaretta in mano mezza spenta facendo zig zag tra brutte buche e pezzi sconnessi di strada che si trovavano in centro. Nessuno decideva mai di asfaltare quelle strade, che rimanevano sempre a metà dando un’idea di fatiscente nonostante le costruzioni rispettabili che si trovavano intorno, con terrazzini pieni di fiorellini borghesi che contrastavano con i barboni stesi accanto alle insegne dei bar a godersi il solicino del giugno romano. Aveva una grande aura di fumo intorno, un po’ per la calura che sembrava la facesse evaporare ed in parte perché con tutte quelle sigarette che si fumava poteva benissimo essere scambiata per una ciminiera ambulante. Così la chiamava sua madre. Cucinava e fumava. Si sedeva e fumava. Tante volte mentre si faceva la doccia lasciava una sigaretta accesa sullo specchietto del bagno per fare qualche tiro mentre si insaponava la testa o si metteva l’olio profumato sul corpo. Continuò a camminare con il sacchetto in mano, pieno di buste di caffè, con sguardo assente mentre pensava ad una bottiglia d’acqua fresca che non c’era a casa, perché le aveva lasciate tutte in terra dato che la sera prima voleva dipingere una scultura fatta con tappi di plastica. Era stato riunirli tutti e appoggiare i contenitori e le fiasche provvisoriamente in terra, sperando che non formassero un lago per le zampate affettuose ma incuranti dei gatti. Sapeva che avrebbe trovato tutto allagato. Forse per quello, forse perché sua madre le aveva detto qualche giorno prima che “fumare in casa era da sgualdrine senza marito” (non era sicura sulla prima, ma la seconda infondo non era una menzogna), non se la sentì di rimettere piede dentro il suo appartamento caldo come un camino e fare tutte quelle scale solo per scoprire che doveva pulire tutto ed era una donna dai facili di costumi nell’opinione materna.

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Dentro, fuori

di Irene Stefanini

Giorno Primo.

Non stava bene, qualcosa si agitava, qualcosa si affievoliva dentro. Tutto era agitatamente spento, mortalmente concitato. La casa era un opprimente nido, piacevole e nocivo, accogliente e scomodo, caldo e severo.

Il silenzio era troppo silenzioso, il buio troppo scuro, la solitudine troppo sola.

Scappò, fuggì, uscì: forse da casa, probabilmente da quel qualcosa che celava al suo interno.

La strada era chiassosa, chiassosa e viva, viva e spensierata. I vecchi sorridevano, i bambini ridevano, i giovani scherzavano. Qualcuno era preso da uno sfrenato attacco di risa, qualcun’altro da baci focosi, altri da un sorriso gentile. Voci allegre e parole gentili.

Fuori c’erano esuberanti rumori, innumerevoli colori e persone. La confusione riempiva il silenzio, la luce rischiarava le ombre, i sorrisi di cortesia riempivano le mancanze.

Il sole splendeva. Non aveva potuto controllare le previsioni meteo prima e splendeva il sole e lui era uscito. Tornò a casa solo quando il sole lo fece.

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La luce della notte

di Rebecca Giusti

   Secondo me la notte e il buio non sono mai stati la stessa cosa. Retoricamente parlando non puoi dire che la notte sia buia, opterei più per un aggettivo come luminosa, anche se forse sto scadendo nell’ossimoro. La notte è come un posto sicuro in cui puoi fare tutto ciò che più ti piace senza la luce vera e propria, fastidiosa ed invadente, che illumina i punti che vuoi nascondere ogni secondo. Il giorno è come una coperta troppo piccola che usavi quand’eri bambino ed in cui entravi perfettamente: ti copriva i piccoli piedi, i riccioli acconciati in ciuffetti ridicoli e non serviva pensare a come poterla allungare alle estremità per coprirti tutto perché tanto conteneva il tuo corpicino nella sua completezza. Crescendo cominciava a starti troppo piccola e quando cercavi di coprire un’area subito se ne scopriva un’altra, con altre persone che accorrevano per osservare la parte del corpo rimasta di dominio pubblico, commentandola mentre provavi nuovamente a cucire una prolunga a quella coperta ormai lisa e nasconderti tutto. Di notte è come se tutto l’universo si foderasse di una patina opaca che non permette di osservarsi a vicenda e quindi ogni persona mette la sua coperta giornaliera in un cassetto per riprenderla solo all’alba, perché tanto nelle ore notturne esiste una copertura uniforme per tutti i corpi che non ha bisogno di essere allungata o rattoppata nelle parti distrutte perché è indivisibile. Il buio per molti esiste di giorno, quando il sole curiosa in te stesso e tu non sai come fare ad oscurarlo e tornare alla meravigliosa luce che c’era poche ore prima. Pensa a quante meravigliose cose possono succedere mentre splende uno spicchio di luna o addirittura una luna intera nel cielo buio: un elemento così romantico, protagonista di così tante storie diverse, film di fantasia improbabili o musical scadenti, sopravvalutato e utilizzato da molti artisti impropriamente, non è poi così tanto male.

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