Fra sofferenza e amore… vince chi resta

di Sara Caliolo

   In uno dei suoi più celebri romanzi Dostoevskij scriveva che “la sofferenza (…) è una grande cosa” perché “nella sofferenza c’è un’idea” ed è proprio su questo concetto che l’autore si sofferma spesso a riflettere in Delitto e castigo. Proprio su questo, infatti, si basa il percorso esistenziale del protagonista Raskòlnikov che, dopo aver compiuto un primo premeditato omicidio e poi un imprevedibile secondo, si trova costretto a fare i conti con le conseguenze delle sue azioni, a scontare la pena per aver dato troppa fede al suo progetto ideale. Profondamente convinto di sé e delle sue capacità, egli matura, negli anni della sua gioventù, una singolare teoria filosofica: un solo il male può essere giustificato dalla garanzia di altre azioni buone future, specialmente se a compierlo è una persona che, così facendo, può garantire il bene comune. Premettendo ciò, quindi, anche un delitto può essere lecito se il movente è buono.

   Leggendo le prime pagine del libro sembra, insomma, un ragionamento quasi logico, seppur moralmente difficile da accettare: seguendo le descrizioni fornite da Dostoevskij, il lettore viene inconsapevolmente coinvolto, e in parte convinto, dalla mentalità del giovane Raskòlnikov, tant’è che a volte potrebbe addirittura pensare che questi, in fondo, un po’ di ragione ce l’abbia. Una sola vita in cambio di cento altre sicure potrebbe sembrare il giusto compromesso per arrivare ad una grande conclusione: c’è chi può farlo e chi, invece, non può essere coinvolto. Egli infatti sostiene che l’umanità sia suddivisibile in due specie: i “grandi uomini” come Napoleone, a cui è consentito agire al di sopra delle leggi morali in nome dei benefici che possono compiere e assicurare, e le persone comuni, che identifica metaforicamente come “pidocchi”, in quanto uomini insignificanti che possono solo obbedire alle leggi di chi comanda.

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Questo selvaggio non è poi così buono

Uno scontro cruento tra razionalità e istinto

di Matteo Pierini

   Scritto nel 1952 da William Golding, Il signore delle mosche racchiude nella sua essenza gli eventi più significativi vissuti dall’autore inglese e viene considerato uno dei racconti più avvincenti sotto il profilo psicologico.

   Nonostante il suo enorme successo, che permise al suo autore di conseguire la stabilità economica, e pur essendo divenuto un best seller tra i giovani universitari, non fu semplice pubblicarlo, perché non convinse molto le case editrici inglesi e ben ventuno editori rifiutarono la sua pubblicazione. Solo dopo due anni di tentativi, nel 1954, la casa editrice Faber and Faber riesaminò l’elaborato e T.S. Eliot formulò il titolo del romanzo affinché risultasse una metafora per ricordare la malvagità di Satana.

   Fin da bambino, Golding aveva sviluppato una forte vocazione religiosa, al punto da trasferirsi in una colonia cristiana inglese dove svolse l’attività d’insegnante in una scuola elementare. Successivamente venne chiamato ad arruolarsi nell’esercito durante la Seconda Guerra Mondiale; arruolato in Marina, faticò ad adeguarsi agli ordini impartiti dai superiori.

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Una breve storia dell’amicizia da Empedocle a Hermann Hesse

di Chiara Bertani

   Che cos’è l’amicizia? Il dizionario Treccani la definisce come: “vivo e scambievole affetto fra due o più persone, ispirato in genere da affinità di sentimenti e da reciproca stima”, ma credo che nessuna persona risponderebbe lo stesso se le venisse posta questa domanda, perché l’amicizia è molto più di questo e perché ne esistono svariati tipi, che è impossibile racchiudere sotto un’unica semplice definizione.

   È circa dal V secolo a.C. che questa parola è in uso, infatti fu Empedocle ad utilizzarla per la prima volta, esprimendo il concetto con il termine greco φιλία. L’antico filosofo l’ha descritta come un principio fisico e divino, che agisce come una sorta di forza di attrazione, determinando l’aggregazione degli elementi e la composizione delle cose, in opposizione a Νεκος, che significa odio e comporta la separazione degli elementi. La teoria di Empedocle ha anticipato diversi concetti presenti nella maggior parte delle riflessioni svolte da filosofi successivi a proposito dell’amicizia, in primo luogo il fatto che l’amicizia unisca, congiunga. Poi è significativo che venga utilizzato un termine con significato di amicizia ma anche di amore. In effetti, è labile la differenza fra i due sentimenti, tant’è che anche i filosofi latini si sono serviti del termine philia, che descrive un rapporto basato su varie forme di affetto, insieme alla dimensione amorosa.

   Importante anche il fatto che, secondo lui, l’uomo sia in grado di conoscere le cose che lo circondano, perché riconosce i 4 elementi che le compongono e di cui anche lui stesso è costituito, teoria racchiusa nell’espressione “il simile conosce il simile”. A proposito, tutti noi conosciamo il detto “chi s’assomiglia si piglia”, ma abbiamo anche sentito dire “gli opposti si attraggono”: quale espressione è corretta?

   Platone ha tentato di scoprirlo in Liside, ma non è giunto a nessuna conclusione: crede che l’amicizia tra simili non abbia senso, poiché è inutile circondarsi di persone che hanno le nostre stesse capacità; neppure quella tra opposti lo è, perché un uomo giusto non ha alcun motivo di desiderare la compagnia di uno malvagio.

   Al contrario, Aristotele crede che, a seconda che gli amici siano tra loro simili o no, nasceranno diversi tipi di amicizia. Tra i contrari sarà facile che sorga un’amicizia basata sull’utile, ovvero in cui i due si amano “in quanto deriva loro reciprocamente un qualche bene” e ognuno guadagna ciò di cui difetta, donando ciò che ha. Altrimenti, possono nascere due tipi di amicizia: nel primo, vengono considerati simili coloro che hanno interessi e gusti comuni, tra cui si instaura un’amicizia basata sul piacere, non duratura, in quanto interessi e gusti sono mutevoli. Nel secondo, le persone sono dette simili perché entrambe buone e virtuose e, essendo la virtù stabile, sono destinate a rimanere amiche e volersi reciprocamente bene a lungo.

   Aristotele, nell’Etica Nicomachea indica quest’ultima come l’amicizia perfetta, in cui “amando l’amico si ama il proprio bene; infatti la persona buona quando diviene amica, diventa un bene per colui al quale è amica.”, ciò significa che questa è vantaggiosa per entrambi in quanto li conduce al raggiungimento del “giusto mezzo” nel proprio modo di pensare, di agire e di essere.

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La gentilezza non è una bugia

Gli scritti sul Giappone di Karl Löwith

di Viola Benedetti

   Karl Löwith, uno dei più importanti filosofi del Novecento, vive in Giappone nella condizione d’esiliato tra 1936 e il 1941. Là si guadagna da vivere insegnando filosofia europea all’università di Sendai e intanto osserva, confronta e valuta quello che gli si presenta come un mondo alla rovescia rispetto all’Occidente e all’Europa.

   Scritti sul Giappone presenta alcune differenze fondamentali tra la cultura della civiltà giapponese (orientale) e quella europea (occidentale). La prima differenza sostanziale tra questi due mondi concerne la storia fin dalle origini: la società occidentale era caratterizzata dalle polis greche (società tendenzialmente “democratiche”) guidate a volte da rappresentanti del popolo, in cui non vi era un capo assoluto; a differenza delle società orientali, caratterizzate quasi sempre e più lungo da una simile figura. Nell’opera I Persiani di Eschilo è possibile vedere questa differenza in quanto, nella guerra tra greci e persiani, la regina di Persia, che era stata sconfitta, chiese il perché di questa sconfitta, e le fu risposto che i greci non erano servi di nessuno, non erano cioè disposti a lasciarsi sottomettere. Ciò spiega perché, mentre l’oriente è più disposto ad obbedire, la storia dell’occidente può essere letta come la storia della progressiva conquista della libertà.

   La guerra greco-persiana si collega al fatto che l’uomo occidentale ama fare esperienze e viaggiare mentre quello orientale si dedica alla meditazione. Il mondo occidentale appare individualista, perché valorizza la libertà individuale e le ricchezze individuali, e quindi si basa sul successo dell’individuo. Mentre la cultura orientale, e in particolare quella giapponese, si concentra su tutt’altro: sulla collettività, sull’obbedienza e soprattutto sul fatto che non viene data grande importanza alla vita come invece accade in occidente; anzi, per gli orientali la perfezione risiede nel vuoto, il vuoto è tutto, è l’essenza e il raggiungimento della pace. A differenza dell’uomo orientale, quello occidentale non riesce a concepire un vuoto senza una forma, un qualcosa che lo rappresenti concretamente.

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