Il nostro tributo per il musicista scomparso recentemente, sviluppato in due brevi saluti.
Di Alessandro Rosati
Il Destino, a volte, è beffardo.
Come una macchina, non guarda in faccia a nessuno: esegue le sue sentenze con un terribile rigore. È proprio il suo rigore a far paura agli uomini, quella fiscalità da cui non si sfugge, che regola i ritmi dell’umanità e della natura.
È un nemico silente, un’ombra che si proietta davanti agli occhi e scorre inesorabile.
E fa paura, eccome se fa paura.
Forse l’ha avuta anche lui, anche se non lo dimostrava. Quell’uomo magro, dal volto scavato, occhi e capelli scuri, dotato di una gestualità coinvolgente e sempre armato di un sorriso. Quell’uomo che da un po’ di tempo a questa parte stava seduto, purtroppo.
Non per sua volontà ovviamente, ma perché un male interiore lo stava consumando lentamente e inesorabilmente.
Avrete già capito di chi sto parlando: Ezio Bosso.
Difficile non parlarne, la sua è una di quelle storie tristi, anzi tristissime, ma che lasciano qualcosa in ognuno di noi.
Di triste però c’è solo l’epilogo, perciò comincierò a raccontare dalla fine.
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