Una cattedrale in fiamme, il cristianesimo e l’Europa

di Alessandro Vannucci

Una cattedrale in fiamme, il cristianesimo e l’Europa

di Alessandro Vannucci

   Il 18 luglio alle 7 e 45 del mattino la cattedrale di Nantes è stata avvolta dalle fiamme, fortunatamente la struttura non ha subito grandi danni, mentre l’organo è andato perduto.  La Cathédrale Saint-Pierre-et-Saint-Paul de Nantes è ricordata per il suo stile gotico ed è il risultato di oltre 450 anni di lavoro, dal 1434 al 1891. Già in passato, negli anni settanta, fu colpita da un incendio che la devastò parzialmente: le fiamme allora furono causate da un operaio addetto alle riparazioni sul tetto, il quale aveva erroneamente appiccato il fuoco con una saldatrice.

   La cattedrale ritornò ad essere praticabile per il culto 13 anni dopo. Agli occhi della polizia, l’episodio dello scorso luglio risulta diverso rispetto a quello del 1972, infatti secondo le forze dell’ordine il custode Emmanuel A. sarebbe il responsabile.

   L’uomo, rifugiato ruandese, trentanovenne, in Francia dal 2012, avrebbe appiccato l’incendio per vendicarsi contro la diocesi e contro lo Stato del mancato rinnovamento del visto. Il colpevole si trova ora in detenzione preventiva e rischia una condanna di 10 anni con una multa di 150000 euro.   

   Grazie alla confessione del guardiano, gli investigatori hanno potuto ricostruire le dinamiche del reato: l’uomo avrebbe posizionato 3 cariche, 2 a terra, ai lati dell’altare, e l’altra una decina di metri sopra, al livello dell’organo del 17esimo secolo, resistito anche ai saccheggi della rivoluzione, ma andato perduto nell’incendio. Elemento chiave, per le indagini, è stata la mail di rabbia inviata alla diocesi, che Emmanuel aveva spedito dal suo computer. Le critiche non si sono fermate al colpevole, ma hanno raggiunto anche le cariche dello Stato, accusate di non avere preservato i monumenti religiosi, dal momento che 87 cattedrali, tra cui quella di Nantes, mancano di sistemi anti incendio.

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Caso Blake: il problema non è solo la polizia

di Alessandro Rosati

   Da qualche giorno gli Stati Uniti sono tornati sotto i riflettori e gli occhi di mezzo mondo si sono proiettati nelle terre a stelle e strisce, più precisamente nel Wisconsin. La causa? Un altro abuso di potere da parte della Polizia, ancora violenza.

   È di una settimana fa la notizia che Jacob Blake, afroamericano di 29 anni, è stato colpito da sette pallottole nella schiena. A sparargli è stato un agente, che nel vedere l’uomo dirigersi verso la propria auto ha deciso di svuotare il caricatore della sua arma nella spina dorsale di Blake, che adesso è in ospedale, paralizzato, mentre gli Stati Uniti, e soprattutto il Wisconsin, si rivoltano di nuovo. Il Black Lives Matter è tornato alla ribalta, dopo aver diminuito la sua intensità rispetto ai giorni immediatamente successivi la morte di Jorge Floyd. Mentre le piazze Statunitensi si riempiono, l’Europa e il resto del mondo rimangono a guardare, chi compiaciuto e chi meno.

   L’appoggio alle proteste arriva dai social, Instagram su tutti. Gli utenti mostrano il loro sdegno con emoticon di ogni tipo, ma il meglio di sé lo danno con un post, un Instagram stories o un hashtag: elementi “imprescindibili” di una rivolta dalle proporzioni mondiali. D’altro canto che un mese fa molti si fossero già dimenticati del caso Floyd non ha importanza: adesso sono lì a sostenere la causa, chi per moda o chi perché ingenuamente crede di poter cambiare qualcosa. Sono i primi a riferire notizie decontestualizzate e prive di reali informazioni, ma allo stesso tempo sono sempre i primi a lamentarsi della strumentalizzazione dei media. Questa però è un’altra storia: è l’ipocrisia della nostra società. La stessa ipocrisia che ci porta a far diventare virale un video di un uomo quasi ucciso da 7 colpi di arma da fuoco, così che tutti, anche i bambini, vedano e tocchino con mano la violenza, la sperimentino dai primi albori di vita agli ultimi sfuggenti attimi di essa. Nessuno si accorge però che la violenza genera violenza e l’odio porta solo altro odio. Nessuno si è accorto che il problema non è soltanto la polizia e la soluzione non è solo una riforma giudiziaria (ce ne aveva parlato Conrad Torsello in un’intervista https://www.leviagravia.net/dentro-le-proteste-intervista-a-conrad-torselli/), ma le cause (e conseguentemente le soluzioni) vanno ricercate più a fondo.

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Tra l’attesa e la paura di viverla

Le notti bianche di Fedor Dostoevskij

di Silvia Picchi

“…Fu creato forse allo scopo di rimanere vicino al tuo cuore, sia pure per un attimo? …”

Ivan S. Turgenev

   Era il 1848 quando il giovane Dostoevskij pubblicò per la prima volta “Le notti bianche” su una rivista letteraria russa e proprio con questa citazione si apre il suo celebre racconto, probabilmente a sottolineare la potenza emotiva di questo grande lavoro.

   Questa storia descrive profondamente tutti quelli che sognano ad occhi aperti, che spesso perdono il contatto con la realtà che li circonda, che fantasticano immergendosi completamente in un libro o, ancora più frequentemente al giorno d’oggi, nella rete Internet attraverso lo schermo dello smartphone.

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Jamie Vardy, il bomber della gente

di Alessandro Rosati

   Dai monti del South Yorkshire, in Inghilterra, scende placido il fiume Don che con le sue anse eleganti attraversa la Contea e la città di Sheffield. La calma del corso d’acqua però si scontra inevitabilmente con lo scenario da Rivoluzione Industriale della stracittadina. Sheffield è famosa in tutto il Regno per la produzione di acciaio e ciò non può che implicare una caratteristica peculiare e forse non molto nobile: la presenza di industrie (e non poche). Tra palazzi moderni sbucano stabilimenti metallurgici, meccanici, metalmeccanici e chi più ne ha più ne metta.

   Proprio qui, nel rumore assordante dell’industria, lavora un ragazzo di vent’anni. È il 2007. Quel ragazzo guarda e maneggia i suoi attrezzi industriali con la meccanicità di un operaio, ma i suoi occhi sognano già la fine della giornata e ciò che lo aspetta: due porte, un pallone e un campo d’erba, forse. Già perché magari neanche il manto erboso ricopre quei 100 metri di magia, ma a lui va bene lo stesso: l’importante è giocare a calcio. Scordatevi i prati perfetti, le interviste e i milioni, perché il calcio dilettantistico sarà anche passionale ed emozionante, ma è terribilmente crudele. Dopo una giornata di lavoro infatti, ad aspettare quel ragazzo ci saranno i suoi compagni, il mister, qualche pallone e il freddo aspro dell’inverno Inglese.

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