Trudy, una lampadina a New York

Un’ipotetica intervista ad una donna che dipinge

di Rebecca Giusti

Trudy Benson è mora, con capelli fino alle spalle e si veste con colori basici. Sembra essere l’alterego di una delle forme colorate riprodotte sulle sue esuberanti tele, che, come spiegherò meglio in seguito, sembra che vogliano farmi un lungo discorso o urlarmi di andarmene con colori che sono pugni, quando cammino dentro il suo studio a New York.

Il suo appartamento di Brooklyn è spazioso, è la classica immagine di un’open space dove ci sono circa cinque tele per “stanza”, se così si possono chiamare i luoghi senza porte in cui ha organizzato tutta la sua vita. Mi prepara un caffè con la moka rossa, dello stesso colore del quadro a metà che le sta vicino alla gamba su un cavalletto un po’ rovinato. Lei è accogliente, ma sembra sempre distaccata, come se mi ascoltasse con un orecchio e con l’altro sembrasse più interessata alle le vocine dei quadri che vagamente ho sentito anch’io quando sono entrata.

A Brooklyn non è bel tempo e lei sembrerebbe la ragazza dipinta nell’opera di un pittore realista (che costa milioni di dollari, perché veramente simile ad una fotografia), con l’aria annoiata ma attenta a ciò che voglio dirle, la tazzina di coccio sbeccata in mano e una finestra mezza aperta dietro, da dove sbuca il cielo coperto da nuvole passeggere. Leggi tutto “Trudy, una lampadina a New York”

Due Poesie

di Rebecca Giusti

 

Sterpaglie

Si vive bene

Con le siepi d’intorno

Un danzare di sterpaglie che ti abbraccia

 le caviglie bianche

Il passo incerto

Di chi non sa cosa succederà tra

Due tre mille giorni

Si ride finché la bocca si muove

E i muscoli del viso si ribellano

Alla staticità del volto

Siamo fortunati finché siamo tra

Qualche muro bianco d’inadeguatezza

Perché fuori potrebbe essere peggio.

Qualcuno scherza

Altri piangono col sorriso

Qualcuno lo fa senza la luce fuori

abbracciando un vuoto grande quanto la mancanza

Che ne sarà di noi

Così disabituati a vivere nella paura.

 

Bosco d’inverno

Nel bosco c’era una scatolina

Era un bosco normale

Le foglie blu come la nostalgia umana

stavano ferme però

E tutto sembrava non azzardarsi a muoversi

Non c’erano rumori

Gli animali sgusciavano e strisciavano

Vicino alla terra secca e piena di solchi

Senza emettere neanche un sibilo involontario

La fermezza dell’aria avrebbe fatto crollare chiunque

Se solo ci fossero stati passanti

Sulla scatolina c’era una scritta

Era incisa da un bambino che stava ancora lì seduto

Si leggeva: memorie di quello che avrei voluto essere.

Ma era un bosco o la mente di qualcuno?

Ormai non si capiva più.

 

Cuori d’ottima annata

Una poesia di Rebecca Giusti

 

Cuori d’ottima annata

 

È come se tutti

Cercassimo qualcuno che ci rassicura

Corriamo sbraitiamo saltiamo

Andiamo incontro a ciò che pensiamo

Sia giusto

Solo per una carezza a metà

Pensiamo di essere forti

Solo finché qualcuno ce lo dice

Ridiamo di noi stessi

Solo fin quando qualcuno non lo fa

Troppo forte

E ci dà noia all’udito

Ma un po’ anche al cuore

Cerchiamo cuori d’ottima annata

In un vigneto spoglio

Piangendo perché siamo già ubriachi

E non sentiamo più i sapori

Ma solo gusti amari

Corriamo saltiamo sbraitiamo

In quel momento di calma

Non ci interessa niente, stiamo bene

Facciamo finta di non sapere che

Quando ci passerà la sbronza

Rincomincerà tutto

E continueremo a cercare qualche vino

Con cui farci del male.

Jane si era presa un gatto

di Rebecca Giusti

Jane si era presa un gatto. Era carino, un po’ anaffettivo ma sorrideva come un umano: inclinava il muso e mostrava i denti come un diavoletto.

Jane credeva che così si sarebbe sentita meno banale. Solo dopo essere arrivata al gattile in uno spoglio quartiere autunnale (era estate, ma quel quartiere aveva un’aria perenne di ottobre dentro di sé), si era accorta che tutti i suoi conoscenti avevano un gatto. Jane si era sentita ancora più banale. Banale perché aveva pensato di poterlo non essere agendo come tutti gli altri, sguazzando e muovendosi scomposta per uscire dalla folla per finire ad ondeggiare e crogiolarsi soddisfatta nella banalità, pensando di essere arrivata sulla sponda dell’isola giusta, che finalmente l’avrebbe staccata da quella uniformità fluida: un posto sicuro a cui tutti sembravano aspirare, non vedevano l’ora di naufragare per raggiungere quel posto deserto, irreale e troppo sfuocato per accogliere anche più di una persona.

Lei aveva un gatto, quindi ormai erano in due. Il gatto e Jane non potevano arrivare entrambi sull’isola, perché se già lei stessa era troppa per quel luogo, addirittura portare il diavolo sorridente era impensabile. Jane pensava che chi non si sentiva banale perché stava con un qualcosa che non lo era, era l’apoteosi di quello che lei rifuggiva affannata.                           Leggi tutto “Jane si era presa un gatto”