Yun Dong Ju

Un poeta per la libertà

di Rebecca Giusti

Questa parola difficile da pronunciare per noi occidentali è stato in realtà il nome di un poeta coreano. Non si sa molto sulla sua vita, tanto che su Wikipedia gli è stato dedicato un breve trafiletto di una pagina, con tutte le informazioni che racchiude l’immensa vita caleidoscopica di un uomo. Da una foto in bianco e nero che ho trovato di lui, si vede un volto perfettamente ovale con due minuscoli occhi incastonati all’interno che fissano chiunque gli stia davanti. Accenna un mezzo sorriso, ma ha l’aria di una persona di cui ti fideresti. Sembra calmo, pervaso dal benessere in quello scatto. Ha lo stesso viso dei nonni quando vedono i loro nipotini dopo qualche mese e pensano a quanto sono cresciuti quelle creature che solo poco tempo prima gli traballavano al ginocchio.

Questo personaggio, suppongo alquanto sconosciuto in quest’ala ridotta del mondo in cui ci troviamo, è invece inciso nella memoria di tutti i coreani, piccoli, medi, bruni, con gli occhi azzurri o le lentiggini. È stato un grande uomo, poeta, e una persona, a mio modesto parere e con la mia conoscenza ridotta della persona reale, affidabile, eccessivamente buono e abbastanza timido inizialmente, taciturno la maggior parte delle volte. Naturalmente ognuno si può creare la propria immagine di Dong Ju guardando la sua foto sul web, ma a me piace credere che lui si stato così. Leggi tutto “Yun Dong Ju”

Bambini al mare

Un estratto di un brano scritto da Giulia Corona, in arte Sadzylla

di Rebecca Giusti

Oggi ho letto un testo bellissimo di una ragazza che non conosco, ma si sa come vanno queste cose, lei lo pubblica su internet e tu sbirciando qua e là cosa fa Tizio, che dolce ha preparato Caio per il suo diciannovesimo compleanno, dove si è sposata la zia di tua cugina, vedi anche dei pezzi, delle frasi, delle poesie sperse nel mucchio che brillano come fari. È successo come avviene per i tuffi: prima ti annoi, vorresti solo fare il morto a largo senza che qualche bambino stupido (definito tale solo perché in quel preciso istante ti sta infastidendo) ti giochi intorno con eccessiva esuberanza, tipica dei bambini stupidi al mare. Poi però ti guardi intorno e vedi che un ragazzetto un po’ più lontano dalla tua sagoma statica a mollo si sta gettando con urli che rimbombano nell’aria pesante dentro l’acqua gelata. A quel punto pensi: Mi sono rotta di stare inzuppata in quest’acqua fredda senza provare anch’io a gettarmi da lassù, mamma io vado, torno dopo, ciao. Una volta fatto il primo, si fa poi il secondo, il terzo e così via fino a quando le nonne non cominciano a chiamare, con voci divenute troppo acute man mano che la loro età avanzava, i loro nipotini stupidi che sguazzano vicino al bagno asciuga. Ti è così piaciuto quel momento dove ti libravi a mezz’aria, come se non pesassi, come se l’aria non ti spingesse verso la coperta blu che danzava sotto ai tuoi piedi, ma verso il cielo, che ne parli tutto il giorno. Mamma non puoi capire quando racconterò a Filippo di questi tuffi! Babbo mi hai visto quando mi lanciavo?! Menomale non ho pestato quel sasso appuntito, stavo quasi per scivolare! Non parli d’altro, il ricordo di quell’esile salto ti perseguiterà per non più di un giorno, poi lascerà spazio a nuove nuotate e racconti ritenuti di vitale importanza, ma destinati ad essere a breve termine anche loro. Per quel giorno però, ciò che hai fatto ti scaverà dentro un buco, una caverna sicura dove accoccolarsi sul tuo cuore ed abbracciarlo lentamente, come un’ape che risucchia piano piano il polline da un bocciolo appena nato. Così hanno fatto con me le frasi di questa ragazza, mi si sono addormentate dentro ed in un ventoso pomeriggio di ottobre in cui non sapevo che fare nella pausa dallo studio, mi hanno fatto compagnia. Giulia (così si chiama l’autrice) dedica poche righe, sotto forma di flusso di coscienza, alla ragazzina piccola che era stata, con un tono di sincerità che fa arrendere davanti al passare degli anni e un sorriso dolceamaro che si legge fra le righe. Leggi tutto “Bambini al mare”

Un sorriso amaro di fine estate

di Alessandro Rosati

Un sorriso. Cara estate, cara maledettissima estate, ci siamo. Siamo arrivati a quel fatidico momento dell’anno, quando guardarsi indietro è la cosa più difficile da fare. Difficile, sì, ma anche terribilmente bello. Settembre arriva come uno schiaffo: forte, netto, cinico. Sembra quasi voglia svegliarci dal torpore in cui la bella stagione ci ha fatto piombare. E ci dispiace, perché in quel torpore si sognava davvero bene. Ma i sogni, si sa, sono destinati a rimanere tali. Utopie sospese nell’irrimediabile fugacità di questo mondo.

Proprio come dopo un bel sogno, siamo costretti a guardarci indietro, nel tentativo di catturare anche il minimo dettaglio di quella fantastica parentesi di felicità. Nel frattempo rimane un grido di gioia strozzato, una sensazione di euforia smorzata, troncata, sradicata e calpestata dallo squallido grigiore della condizione umana. Troppo drastico? Sì, forse, ma neanche troppo. Dipende dai punti di vista.

Ad ogni modo, torniamo a noi: guardarsi indietro. Una foto, una canzone, un gesto: tutto può scaturire un ricordo. E allora inevitabilmente il volto si deforma quasi contro la nostra volontà: un sorriso solca profondamente il viso, quasi lo tagliasse a metà. E mentre taglia il viso, squarcia la tela del presente per ripresentarsi prepotente con in mano il passato. E intanto noi, pittori di un quadro che forse neanche vogliamo dipingere, restiamo attoniti. Ricordi e malinconia ci trasportano in una dimensione surreale, dove nel presente ricerchiamo il passato e nel futuro una speranza vana. Che terribile e fantastica illusione la vita. Illusi, sì, che l’euforia dei momenti possa durare per sempre. Non è così, c’è da farci l’abitudine. Bisogna sempre ricordare che dopo ogni Agosto c’è un Settembre dietro l’angolo, pronto a uccidere. Certo che così si vive male. Senza dubbio, ma dipende tutto dai punti di vista, l’ho già detto. Leggi tutto “Un sorriso amaro di fine estate”

Indro Montanelli, giornalista e scrittore: parte seconda

Domande e risposte.

Trascrizione a cura di Alessandro Rosati

Domanda: per quanto riguarda il rapporto tra vero, verosimile e giornalismo. Citando Montanelli lei ha detto “meglio raccontare la verità con aneddoti falsi”, ma la domanda sorge spontanea: così facendo non si esce dal campo del giornalismo?

Alberto Malvolti: Giustamente tu applichi al giornalismo una definizione classica, per cui il giornalismo è semplicemente un racconto distaccato e obiettivo dei fatti. Certamente questa operazione di introduzione di elementi narrativi nella scrittura giornalistica è un passo abbastanza audace da parte di Montanelli. Però funziona. Funziona perché nessuno dei soggetti raccontati da Montanelli, come personaggi, si è mai lamentato che la sua personalità era stata tradita dal racconto. La personalità è risultata vera anche se c’erano degli aneddoti “di colore”. Il verosimile è stato una verità, meglio di un realismo puro e semplice che non diceva molto del personaggio. Proviamo a fare una riflessione su tre termini: verità, vero e verosimile.

Se io dico “vero” intendo quello che è accaduto, un fatto vero. Se faccio un ritratto di una persona rendendola verosimile, posso sia “tradire” quella persona e raccontare il falso, sia raccontare una verità. Si può descrivere qualcosa con elementi che non fanno parte del “vero”, ma che attraverso il “verosimile” rendono un ritratto di “verità”.

La risposta che Montanelli ha dato ad Emilio Cecchi è la più eloquente per questa domanda: con tanti “pezzetti” di verità, a seconda di come sono disposti, si può costruire un ritratto completamente falso. Un po’ come un collage di pezzi di foto con cui puoi fornire un’immagine diversa. Un ritratto di un grande pittore invece può estrapolare di più da una persona, rispetto ad una fotografia con un sorriso stereotipato, fatto giusto per essere fotografati. Tirare fuori la verità richiede spesso e volentieri una buona dose di verosimile: il collage (di pezzetti di verità, ndr) da solo non è sufficiente, anzi a volte può servire per raccontare delle “mega” bugie. Tra l’altro non è un caso che Montanelli esprima questo concetto proprio a Cecchi, uomo di grande spessore che sapeva di avere la stessa linea di pensiero.

Domanda: Una domanda che probabilmente ha già affrontato: sotto tutti i punti di vista, cosa vuol dire essere un giornalista?

Alberto Malvolti: Probabilmente se lo chiedete a 10 giornalisti, avrete 10 risposte diverse. Tra l’altro quello che penso io ha anche poca importanza, perché io non sono un giornalista e non frequento redazioni di giornali. Sono abbastanza sprovveduto da questo punto di vista. Essere giornalista al tempo di Montanelli, nella sua concezione, era quella di essere un testimone: vedere e poi raccontare i fatti. Questa potrebbe essere una definizione di quel ramo particolare del giornalismo che si chiama reportage. Montanelli è stato famoso negli anni’ 30/40 per il reportage di guerra e poi di viaggio (in Giappone, in America, In Africa ecc). È anche vero che oggi questa forma giornalistica, non dico che è tramontata, però è in un ambito molto limitato. Il modo di procurarsi le notizie ormai passa attraverso agenzie di stampa, internet ecc. L’individuo, il giornalista in persona, è passato in seconda linea rispetto al flusso di notizie che viaggia attraverso altri canali. Quindi il giornalista non ha più la figura di protagonista che aveva un tempo.

Vi voglio leggere una particolare definizione che diede proprio Montanelli. Alla domanda “sopravviveranno il giornali di carta?”, Montanelli rispondeva così: “Penso di sì. Il quotidiano tradizionale è un’invenzione a suo modo perfetta: si piega, si trasporta, si legge si butta. I quotidiani come li conosciamo diventeranno però (era il 1999, il mondo è ulteriormente cambiato) l’abitudine di una minoranza ancora più ristretta di quella attuale. Il motivo? La concorrenza. Sessant’anni fa, quando ero inviato speciale, l’Italia aspettava i miei articoli per sapere cosa stava accadendo in Finlandia. Oggi qualsiasi avvenimento è coperto, come si dice in gergo, da televisioni, radio, quotidiani nazionali e locali, agenzie, settimanali, mensili, internet e quant’altro. Questo bombardamento di informazioni equivale spesso a nessuna informazione. Vuole sapere se sono amareggiato? No, sono rassegnato. Ho l’impressione che i quotidiani diventeranno un segno di distinzione, come i libri, i congiuntivi e le posate d’argento. Verranno molto copiati, molto citati, ma letti poco. Alcune informazioni specializzate arriveranno da internet, se ho capito cos’è, non mi stupirei quindi se l’offerta di questi media, sempre a caccia di grandi numeri, scendesse ancora di livello”. Diagnosi abbastanza pessimista, come si vede, anche troppo. Il vecchio Montanelli tendeva ad inclinare verso il pessimismo. È chiaro che nel vedersi cambiare il mestiere tra le mani avesse questo tono pessimistico.