Il No di Edoardo Ruffini

di Elisa Sorbi

Edoardo Ruffini fu il più giovane dei dodici accademici che si rifiutò di giurare fedeltà al fascismo, quando gli fu imposto da Mussolini nell’ottobre del 1931, portandolo così a perdere la cattedra dell’università di Perugia, nella quale insegnava diritto, e ad essere isolato, stroncando la sua carriera di docente universitario. Ma facciamo un passo indietro per capire chi fosse Edoardo Ruffini e perché disse di no al fascismo.

Edoardo Ruffini Avondo, figlio di Francesco Ruffini, giurista e altro accademico che si rifiutò di aderire alla riforma fascista, e Ada Avondo, nacque a Torino nel 1901. Venne educato privatamente fino alla prima liceo e si diplomò al Liceo Tasso a Roma. Intraprese poi gli studi di giurisprudenza a Roma e poi a Torino, dove si laureò nel 1923. Nello stesso anno si sposò con Maria Giorgina Bruno, dalla quale ebbe la sua prima figlia. Si trasferì con la famiglia a Perugia e nel 1926 iniziò la sua carriera come professore di storia del diritto italiano nell’università di Camerino. Nacque il suo secondo figlio nel 1927, ottenne la stabilizzazione di ruolo, e fino al 1931 insegnò a Camerino. Nello stesso anno venne poi chiamato all’insegnamento nella facoltà di giurisprudenza a Perugia, dove venne anche obbligato a giurare fedeltà al fascismo. Lui non ebbe mai incertezze sul da farsi. Nel novembre del 1931 venne invitato a giurare formalmente, ma lui rispose con una lettera nella quale scrisse che non poteva “assumere l’obbligo di adempiere con la voluta efficacia a quell’ufficio di formazione spirituale dei giovani che la formula prescritta impone”. Leggi tutto “Il No di Edoardo Ruffini”

Quando lei nacque

di Rebecca Giusti

L’aria era piena di odore di betulle e si sentiva un rumore lontano provenire da case in festa. Era la mattina di Pasqua in un brutto paese nella campagna laziale, e Maria si tirava su a sedere pensando ai suoi ultimi anni. Sentiva che stava morendo, ma amava ancora guardare gli altri. Le era sempre piaciuto osservare le comari all’osteria, i signori che passavano con l’aria di chi non sa come è finito rinchiuso tra quattro mura e una moglie sgraziata da mantenere, dei bambini che urlano, voraci di parole dolci da parte dei legami familiari che hanno imparato a riconoscere nei loro primi mesi.

Si guardava ancora attorno come un tempo, anche se era ormai allettata da tre anni e pensava che, nonostante ormai non parlasse più e facesse fatica a ragionare sulla risposta a domande elementari che le venivano poste ad intervalli regolari come “Hai sete?”, “Vuoi mangiare?”, tutto, tutto, si poteva ridurre a bisogni del genere, e non se ne stupiva né rammaricava. Leggi tutto “Quando lei nacque”

Il “Piccolo mare” della Bretagna

di Joshua Frati

 

La Bretagna è un paese di fate e navigatori, di druidi e corsari, magica e avventurosa.

Questa penisola, a Ovest della Francia, mantiene ben salde ancora oggi le sue tradizioni peculiari e i bretoni, che siano rimasti in Bretagna o che siano emigrati in tutti i continenti, ne sono orgogliosi. Nessuna manifestazione sportiva, nessun concerto anche all’estero in cui non sia intravisto in Gwen-ha-du, la bandiera bretone che rappresenta i paesi e ducati storici di Bretagna.

Appena arrivati in Bretagna, è sorprendente accorgersi che i cartelli stradali sono doppi: le indicazioni di luoghi sono scritte sia in lingua francese che in lingua bretone. Negli ultimi vent’anni, si sono sviluppate in modo esponenziale le scuole bilingue (écoles Diwan). Il fenomeno è diventato tale che è possibile scegliere il bretone come materia di esame al baccalaureat, l’esame di maturità francese.

Le Golfe du Mor-bihan

La mia famiglia materna ha esplorato tutti gli angoli della Bretagna: da Nantes vicino all’estuario della Loira, dove troviamo ancora il castello di Anna di Bretagna, allora moglie del Re di Francia; fino a Brest e i suoi cantieri navali; passando da Saint-Malo, il capoluogo dell’attività corsara dei 16 e 17 secoli; fermandosi infine nel Golfo del Morbihan, un piccolo paradiso tra mare e terra.

Mor-bihan: in lingua bretone significa “piccolo mare”, ed è un microcosmo intensamente ricco di cultura, storia e natura.

Arrivando da Vannes, città capoluogo di provincia, seguiamo una strada stretta verso ovest come una lingua di terra: a sinistra l’oceano, a volte grigio e rumoroso; a destra il golfo, sempre impassibile. E lì in fondo, circondati dal mare, simo finalmente arrivati sulla Presqu’ile de Rhuys.

Cairn du Petit Mont

Una delle prime cose da vedere, che sia la vostra prima volta nel golfo o che ogni sasso vi sia ormai familiare, è il “Petit Mont”. Questo scorcio sul mare permette di passeggiare per oltre 45 minuti a picco sull’oceano, tra pini marittimi, ginestre e brughiera. Passeggiando incontriamo le Cairn du Petit Mont, un monumento megalitico di oltre 6000 anni. Scoprire le Petit Mont è scorrere la storia del neolitico, dell’epoca gallo romana e pure della seconda guerra mondiale: un bunker ci è stato costruito nel 1943, rivolto verso il mare in attesa del nemico.

Anche dall’altra parte del Golfo ci immergiamo nella cultura e storia bretone, con i menhir di Locmariaquer e, ancora un po’ più a ovest, di Carnac. Giustamente, i menhir bretoni sono stati resi famosi da Asterix e Obelix, gli irreducibili gallesi in lotta contro Giulio Cesare. In realtà però, i menhir sono stati lavorati ben prima: i menhir di Carnac sono datati di 5000 a.c. e sono ad oggi il monumento neolitico più imponente della Bretagna: provate ad immaginare 2.733 menhir allineati in dieci file su 4 chilometri… Leggi tutto “Il “Piccolo mare” della Bretagna”

Il 20 marzo pioveva

di Rebecca Giusti

 

Sono qui scomoda seduta su un gradino. La pioggia corre veloce sui tasti, e inghiotte le lettere. Le mani rotte e sbucciate su alcune parti delle falangi corrono, irrefrenabili come se anche loro volessero essere fredde gocce d’acqua, a formare frasi che nella testa non sono ancora state formulare, discorsi che non si sa dove porteranno. Le scarpe dei passanti scorrono come scene di una proiezione nel campo visivo ridotto all’altezza dove sono seduta e sembra che tutte le persone siano svuotate. Che si siano messe dentro una scatola che hanno lasciato a casa, poi abbiano aperto la porta della loro casa, grande, bella, piccola, distrutta, povera che sia, e siano usciti senza essersi portati dietro. Hanno facce inesplorate e sembra che tutti dicano cose uguali. Cose uguali, cose uguali, cose uguali, cose uguali. Poi passano persone che parlano in altre lingue, che bevono caffè da asporto e si muovono rallentati come se anche il bagnato entrasse nelle gambe e nelle braccia. Passano due signori con una bottiglia di vino pregiato in mano, che si riconosce perché incartato in una brillante stagnola dall’aria costosa. Camminano perplessi come se fosse la prima volta che arrivano in questa piazza e vedono il marmo giallastro della chiesa troneggiare sui piccoli bar indifesi che stanno ai suoi piedi, si guardano intorno e sorridono: sembra che gli piaccia essere in un posto piovoso insieme, muoversi in modo ridicolmente riconoscibile e girare la testa spaesati ostentando la loro estraneità al luogo.    Poi, come se la città fosse loro, uno dei due guarda l’altro con aria maliziosa, come se nascondesse una sorpresa in una delle tasche dell’impermeabile liso che gli si accascia floscio sulle spalle magre. I due aprono il vino e passandosi la bottiglia con mani rotte dal freddo, nonostante sia finito marzo e le primule stiano cominciando a fare capolino nell’erba fresca, bevono insieme.