Di Alessandro Rosati
Via D’Amelio, Palermo. Sono le 16:58 del 19 Luglio 1992: il Giudice Paolo Borsellino con gli agenti di scorta è appena arrivato di fronte all’abitazione della madre. Ha giusto il tempo di scendere dalla macchina e accendere una sigaretta, poi il boato. Una Fiat 126 imbottita di tritolo salta in aria senza lasciare scampo al Magistrato e a 5 uomini della scorta, tra cui Emanuela Loi, la prima poliziotta a far parte di una scorta personale. Unico sopravvissuto Antonio Vullo, agente che al momento dell’esplosione sta parcheggiando l’auto blindata.
I motivi della strage, a stampo mafioso, sono ben noti: l’impegno del giudice Borsellino nella lotta a “Cosa Nostra” e le informazioni di cui era in possesso erano troppo scomodi per l’organizzazione criminale e forse, probabilmente non lo sapremo mai, anche ai piani alti della Politica Italiana. Una storia tanto semplice e lineare quanto misteriosa e piena di interrogativi, una tragedia che si consumava ormai 28 anni fa, macchiando indelebilmente la storia del nostro paese.
Paolo Borsellino però è “morto” due volte: fisicamente e ideologicamente. Immediatamente dopo la strage infatti il suo operato è stato fatto sparire, sotterrato da metri di omertà.
Di cosa sto parlando? Delle agende del giudice.
Fonti certe, tra cui la famiglia stessa e la scorta, affermano che il Magistrato avesse sempre con sé due agende, una marrone e una rossa. Sulla prima segnava i numeri di telefono, sulla seconda scriveva tutte le informazioni riservate di cui veniva in possesso. Nomi, cognomi, fatti, testimonianze: su quelle pagine erano scritti tutti i dati ricavati dalle indagini su Cosa Nostra, anche riguardo la Strage di Capaci. Insomma, si trattava di un vero e proprio “tesoro” a livello giuridico.
Entrambe le agende si trovavano in una borsa di cuoio marrone, insieme agli effetti personali.
Quel giorno, quel maledetto 19 Luglio, la borsa si trovava nella macchina di Borsellino, sul pianale tra il sedile del guidatore e il sedile posteriore. L’agenda però non c’era. O meglio, c’era fino a pochi minuti dopo l’esplosione, poi più nessuna traccia.
Ma andiamo con ordine: come facciamo ad essere sicuri che l’agenda rossa fosse al suo posto?
Poche ore prima il giudice era a pranzo con la famiglia a Villagrazia di Carini, frazione di Palermo. La moglie ricorda bene di averla vista sia la mattina, mentre Borsellino lavorava nello studio, sia a pranzo quando il marito ha appuntato qualcosa proprio tra quelle pagine.
L’agenda quindi c’era, per quanto il gup (giudice dell’udienza preliminare) Scotto, che si è occupato del caso, abbia provato a dimostrare il contrario.
Eccoci dunque al processo, presieduto come anticipato da Paolo Scotto di Luzio. La vicenda dell’agenda rossa è arrivata per la prima volta tra le aule di un tribunale soltanto 13 anni dopo l’accaduto, nel 2005. La questione ha preso banco dopo il ritrovamento di una foto che ritrae l’allora Capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli aggirarsi nei pressi dell’auto del Magistrato con una borsa di cuoio in mano. Insieme all’immagine, vengono ritrovati due frammenti video. Entrambi mostrano chiaramente l’ufficiale in borghese, sempre in possesso della borsa, prima a circa 30 metri del luogo dell’esplosione e poi in fondo a Via D’Amelio a quasi 100 metri di distanza.
Prove inconfutabili, forse. Nessuno può assicurare che l’agenda fosse già stata sottratta o viceversa non lo fosse, ma in qualsiasi caso il gesto è inspiegabile: perché allontanarsi così tanto per poi tornare?
Nel corso dei 4 anni di processo sono stati ascoltati molti testimoni a riguardo, uno su tutti Giuseppe Ayala.
L’ex deputato e magistrato è uno dei veri protagonisti delle indagini, insieme ovviamente all’imputato. Abitando a poche centinaia di metri da Via D’Amelio, Ayala è stato tra i primi, insieme alla scorta, a giungere sul posto. Protagonista, appunto, perché per ben quattro volte ha ritrattato la sua versione dei fatti. Tante incongruenze che hanno incrementato l’alone di mistero che avvolge tuttora il caso. La sua prima testimonianza afferma che avesse rifiutato di prendere con sé la fatidica borsa, posta da un ufficiale (in divisa, notate bene). Nella seconda deposizione invece Ayala testimonia di aver preso per primo la borsa e solo successivamente di averla affidata ad un ufficiale dell’Arma. Un anno dopo cambia ancora e stavolta è un ufficiale in borghese ad affidargli la borsa, che a sua volta lascia ad un carabiniere in divisa. L’ultima delle quattro è ancora più caotica: stavolta è proprio l’ex deputato, arrivato addirittura prima dei pompieri, a prendere in mano l’oggetto “incriminato” e ad affidarlo ad un agente presente.
Nessuna delle versioni coincide e quindi la domanda sorge spontanea: perché tanta indecisione da parte del Magistrato?
Nonostante le pur confusionarie testimonianze di Ayala, il gup Scotti fa riferimento al verbale dell’Ispettore Maggi, colui che materialmente prelevò la borsa (priva di agenda) dalla macchina e la portò in Questura. Lo stesso funzionario di Polizia ha però dichiarato di aver percorso Via D’Amelio più volte avanti e indietro in attesa dei soccorsi, dando quindi possibilità a chiunque di sottrarre l’agenda rossa.
Quindi chi ha preso la borsa, per poi rimetterla dov’è stata ritrovata senza l’agenda? Non è stato mai chiarito: l’unica prova certa risulta essere la foto.
A tal proposito l’imputato afferma di aver preso la valigia, non bruciacchiata come invece testimoniato da tutti. Successivamente insieme ai Magistrati Ayala e Teresi ricorda di averla aperta e di non aver trovato l’agenda “perduta”.
Teresi e Ayala, però, quel giorno non si sono mai incontrati. Arcangioli sta mentendo palesemente e allora aggiusta (o peggiora) il tiro in una seconda deposizione: la borsa viene aperta ed emergono dettagli aggiunti da un collega in un’altra testimonianza, ma ancora più inverosimilmente afferma di averla riposizionata nella macchina di Borsellino. Follia. Eppure il giudice Scotto ignora questa versione.
Negli anni si aggiungono poi testimonianze: dall’agente di scorta di Ayala a Felice Cavallaro fino all’ultima e spaventosa versione di Giuseppe Garofalo, capo pattuglia della Polizia.
La sua è tra le prime pattuglie ad arrivare e immediatamente nota un uomo in borghese nei pressi dell’auto di Borsellino, che chiede informazioni riguardo la borsa. La richiesta di spiegazioni da parte i Garofalo sulla sua presenza è ovvia, ma la risposta è inquietante: “Sono dei Servizi (Segreti ndr)”.
Questa testimonianza è benzina sul fuoco, perché in tal caso saremmo di fronte ad un coinvolgimento dello Stato nella vicenda. Se le Istituzioni avessero veramente voluto che l’agenda rossa sparisse, allora l’ipotesi di una collaborazione Stato-Mafia non sarebbe poi così lontana. Si spiegherebbe per esempio l’assoluzione nel 2009 per mancanza di prove del Colonnello Arcangioli, nonostante proprio gli avvocati difensori dell’imputato avessero chiesto di procedere con gli interrogatori dei membri dei Servizi. E ancora sarebbe chiaro il motivo per cui la Cassazione (alle cui sentenze non si fa appello) abbia bocciato il “rinvio a giudizio” per Arcangioli richiesto dalla Procura di Caltanissetta (la stessa in grado di gestire i processi per Mafia più delicati).
Il caso dell’agenda rossa ha aperto una voragine di proporzioni gigantesche, ma nessuno ha fatto luce su questa tremenda pagina di storia della Seconda Repubblica, nessuno ha fatto in modo che Paolo Borsellino morisse una volta sola.