Un inno alla fugacità della vita4 min read

 

di Alessandro Rosati *

Flora è un nome qualunque. Un nome qualunque aggrappato ad un viso qualunque. Un nome letto, di sfuggita e un po’ sottecchi, sul cartellino di un enorme valigia, una di quelle che si è soliti portare per lunghi viaggi.

Capelli lunghi e animati da un leggero movimento ondulatorio ricadono sulle spalle di Flora. Qualche nota dorata mitiga il castano scuro naturale: dettagli che lasciano pensare ai giorni passati, sicuramente soleggiati e probabilmente passati su qualche spiaggia della Toscana. Nonostante un accenno di abbronzatura, fitte lentiggini tradiscono un’evidente carnagione chiara.

In viso, un sorriso accennato lascia trapelare una tenerezza d’animo. O almeno così sembra di leggere nel vitreo verde dei suoi occhi, assonnati ma non per questo meno vivaci.

Quella di Flora non è una bellezza che rapisce: un viso qualunque, in un giorno di luglio qualunque. Dolce e grazioso, ma pur sempre confondibile tra mille altri.

Flora dunque è una turista straniera, non c’è dubbio. Se poi ve ne fosse anche soltanto uno, lei lo spazza via immediatamente. “I am sorry” esordisce, accomodandosi un po’ goffamente sulle sedute di uno squallido regionale per Roma e scusandosi per il disturbo. Non potrebbe fare altrimenti: gli spazi stretti nei vagoni dei treni sono assolutamente inadatti ad ospitare le grandi valige da traversata oceanica, tanto da occupare il posto per due persone. Un po’ per galanteria, un po’ per non soffrire nello spazio angusto lasciatomi dalla valigia, mi offro di posizionarla sulla cappelliera. Lei accetta di buon grado, scusandosi prontamente per la pesantezza del bagaglio.

Entrambi ci rinchiudiamo disinteressati nel rispettivo cantuccio, lasciando scorrere sullo sfondo il paesaggio al confine tra Toscana e Lazio.

Ho sempre pensato che quella zona della penisola sia molto affascinante: scorci armoniosi si aprono rapidamente, come sorpresi dal treno che galoppa nel mezzo, tra zone collinari e pianeggianti. Chissà se una straniera pensa la stessa cosa. Certo, potrei chiederglielo…ma no, perché dovrei? E poi ha le cuffie, starà senz’altro ascoltando la musica.

Con il passare dei chilometri il dondolio del vagone apre le porte alla noia. Mi guardo intorno e mi accorgo che, pur essendo un viso qualunque, gli occhi di Flora nascondono una certa scaltrezza. Non mi stupisce: viaggiare da soli, su un treno regionale italiano, per una straniera è notevole. Già, ma sarà da sola? Sembrerebbe.

Mi accorgo tra l’altro che il suo colore preferito dev’essere il verde: porta diversi accessori di quel colore, e poi un piccolo anello graziosissimo, verde anche quello. Potrebbe essere uno spunto di conversazione.

“Viaggi per Roma?” le chiedo d’un tratto. È sempre così: quando l’istinto vince la timidezza le parole escono come un fiume in piena. Viaggia per Roma, in vacanza. Io no. Peccato, assomigliava quasi all’inizio di una pellicola anni ’70.

Le chiacchiere soppiantano la visione del paesaggio. Ci scambiamo notizie sulle nostre vite: studio, lavoro, progetti per l’estate e per il futuro. Informazioni che presto andranno perdute nelle nostre menti impegnate.

Una voce metallica interrompe il flusso delle parole: siamo al capolinea. Nel salutarci, ci auguriamo buon viaggio e poi via, ognuno per la sua strada.

Mentre aspetto la mia coincidenza, puntualmente in ritardo, penso. Penso che il destino è un curioso intrecciarsi di vite. Anche per poche decine di minuti…si ingarbugliano, si confondono, si compenetrano. Flora molto presto si dimenticherà di un giovane studente di Giurisprudenza proveniente da una piccola città della Toscana; allo stesso modo io rimuoverò dalla mia memoria i dettagli di una giovane australiana appena laureata in dermatologia.

Eppure da un casuale incontro i miei pensieri rimangono impigliati addosso ad una vita qualunque. Chissà quante cose aveva da raccontare Flora. E chissà quante avrei potuto raccontarne io. Non lo sapremo mai.

Il tempo tra noi rimarrà eternamente sospeso, dimenticato e intrappolato in pochi chilometri di via ferrata. Nel profondo domina l’interrogativo dell’alternatività: che forma avrebbe avuto questo strano intreccio di vite qualunque, se le nostre strade si fossero unite per più tempo?

La domanda è suggestiva, ma inutile. Non rimane che aggrapparci all’unica certezza di questa breve storia, che risiede nella soddisfazione di aver colto il poco che il destino in questo caso ci aveva riservato. Una piacevole chiacchierata e niente più.

Solo la consapevolezza di aver vissuto l’attimo nel massimo della sua espressività mitiga l’amarezza di un nulla di fatto. Rinnova però una lezione fondamentale: la vita ci passa davanti agli occhi continuamente e nelle forme più disparate, anche in un viso qualunque, su un treno qualunque, in un giorno qualunque.

Flora, in fondo, è un inno alla fugacità della vita.

 

* Alessandro Rosati, già direttore dal 2019 al 2022 di Leviagravia, è un ex allievo del Liceo “Vallisneri” presso cui si è diplomato nel 2022.  Attualmente studia Giurisprudenza a Pisa e coltiva molteplici interessi, tra cui la scrittura che si contraddistingue per eleganza e originalità.

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