Alberto Malvolti, Presidente della Fondazione Montanelli, ha parlato alla redazione di Leviagravia di uno dei grandi maestri del giornalismo italiano
Trascrizione a cura di Eleonora Rugani e Francesco Bertoli
Alberto Malvolti: cominciamo con una piccola premessa su un aspetto particolare della figura di Montanelli perché, come sapete, ha avuto una vita lunga, ha vissuto 92 anni ed ha iniziato a scrivere, a fare il giornalista a 24/25 anni e quindi ha una vita di scrittore e giornalista di una settantina di anni e raccontare tutta la sua carriera giornalistica ci porterebbe via troppo tempo. Mi soffermo dunque come introduzione su un particolare che credo sia importante: cioè la scrittura giornalistica di Montanelli. È un punto di arrivo di un percorso che si intreccia con la biografia, come spesso succede con scrittori anche classici: si guarda la biografia per capire come la scrittura sia arrivata ad un certo punto ed abbia maturato un certo stile personale.
Questo succede anche a Montanelli, che per tutta la vita ha conservato una grande facilità nello scrivere, una sua dote maturata ed esercitata, ma sostanziale, naturale e personale che con il tempo si è trasformata e si è, diciamo così, asciugata. Voglio dire che non è soltanto un dono, ma un percorso che si intreccia con la sua storia e la sua vita.
Comincio quindi leggendovi queste sue quattro righe: “ho attraversato quasi per intero il mio secolo facendo un mestiere che mi ha permesso, anzi mi ha imposto di stare in mezzo ai fatti, a contatto con quasi tutte le grandi figure che lo hanno dominato e in grado di conoscere molti risvolti che la storia non ha registrato, ma questo sono e questo voglio restare soltanto un giornalista, un testimone del mio tempo”.
Questa dichiarazione di Montanelli al termine della sua vita mi pare che renda chiaro qual è l’idea che Montanelli aveva del giornalismo. Il giornalismo è una testimonianza, cioè è un racconto dei fatti che il giornalista vede e può raccontare. Di questa questione, cioè del testimone diretto, Montanelli ne aveva fatto una specie di mito, che può essere riassunto così: “vale quello che io vedo e che posso raccontare”.
Per esempio Montanelli aveva una certa diffidenza nei confronti dei documenti e il racconto giornalistico doveva dunque basarsi essenzialmente sulla testimonianza diretta. Anche la storia per lui va raccontata da testimone come se fosse una sorta di reportage giornalistico.
Se invece torniamo indietro nel tempo e vediamo ciò che diceva alla fine degli anni 30, in una lettera scriveva questo: “grazie a Dio io non sono soltanto un giornalista e su questo sono tutti d’accordo”. Diceva il contrario di quello che avrebbe detto alla fine della sua vita perché le sue ambizioni originariamente, quando era giovane, ma anche più tardi, erano quelle di essere anche qualcosa di più di un giornalista, di essere in qualche modo un letterato, un narratore.
Da questi due estremi, da “non voglio essere soltanto un giornalista” a quello di dichiararsi “soltanto un giornalista”, c’è un percorso biografico che passa attraverso varie fasi. Sostanzialmente, riducendole all’osso, queste fasi sono determinate, all’inizio, dall’adesione giovanile al fascismo: Montanelli infatti non si è mai tirato indietro nell’ammettere di esser stato fascista quando aveva vent’anni; anzi egli andò volontario nella guerra di Etiopia in Abissinia perché credeva di trovare lì un mondo nuovo, di formare un nuovo italiano rivoluzionario che non fosse l’italiano borghese. Questa illusione di un mondo nuovo fondato sull’adesione al fascismo tramontò ben presto: nel 1936/7 cominciò ad allontanarsi dal fascismo ed addirittura durante la guerra cercò di raggiungere un gruppo di partigiani, ma venne arrestato e messo in una prigione tedesca a Milano, dove prima venne condannato a morte e da dove riuscì a fuggire all’ultimo momento e a riparare in Svizzera.
Dopo questi fatti Montanelli modifica la sua idea di scrittore: non vuole essere più lo scrittore protagonista, il letterato, l’eroe che andava a conquistare il nuovo mondo e che faceva la rivoluzione, ma vuole stare alla finestra, non vuole più partecipare ai grandi eventi storici, ma li vuole testimoniare. Questo è il grande cambiamento che fa dagli anni 30 ai 40 dopo le delusioni politiche e dopo la prigione e l’esilio, matura un nuovo intento, quello di essere un testimone e dunque raccontare ciò che vede.
Si calcola che nella sua vita Montanelli abbia scritto circa 50.000 articoli di vario genere ed una cinquantina di libri, parte di questi sono raccolte di articoli già pubblicati, mentre altri originali sono nati dalla sua vena, basti pensare alla Storia d’Italia. Questo è in sintesi il suo percorso, ma prima di passare alle vostre domande voglio aggiungere un altro aspetto, quello più centrato sulla scrittura: che tipo di scrittura è quella di Montanelli?
Nel 2019 a Lucca si tenne un convegno, a cui partecipai anch’io, che verteva sul rapporto tra giornalismo e letteratura, un po’ quello di cui ci occupiamo noi stasera. Se aprite per esempio un manuale di giornalismo o letteratura, trovate questa distinzione netta. La letteratura è sostanzialmente una scrittura di invenzione, molto libera, mentre il giornalismo dovrebbe raccontare la realtà. Questa distinzione così netta è stata superata o molto ridimensionata, perché un’obiettività, anche dal punto di vista giornalistico, non esiste.
Vi leggo questo brano di Montanelli che parla proprio di questo argomento: lo abbiamo pubblicato recentemente nel sito della Fondazione. Ricorda qui un incontro con Webb Miller, un giornalista americano, vincitore del premio Pulitzer, in Finlandia, durante la guerra di Finlandia nel 1939, agli inizi della seconda guerra mondiale: “Trovavo sempre qualcosa da impararvi, soprattutto l’obiettività, quando glielo dissi si mise a ridere: ‘Ma l’obiettività – mi disse – non esiste, è solo un’illusione creata nel lettore da una certa tecnica del reportage, che dà al lettore la sensazione cioè, di illusione dell’obiettività’. Eppure i due reportage che più mi hanno dato il successo e di cui forse, pensa che pretesa, sono quelli che più si discostavano dalla ricetta di Webb, in quanto lungi dal mascherarla, ostentavano, e a quanto pare riuscivano a comunicare la mia passione partigiana. La guerra di Finlandia che io raccontai non da testimone obiettivo, ma da finlandese, e la rivolta ungherese del ‘56, che raccontai da insorto (da rivoluzionario ungherese), sono dal punto di vista dell’obiettività i miei due reportage peggiori, ma forse gli unici con i quali sono riuscito ad influire sull’opinione pubblica, o almeno su una parte di essa.”
Questi testi sono leggibili anche oggi, e sono dei libri che si leggono ancora in modo appassionato. I fatti sono ormai morti da tempo, e questi testi ci interesserebbero solo come fonti storiche, invece sono libri che si leggono volentieri perché c’è qualcosa di più del puro racconto della realtà. E qui arriviamo all’ultimo punto, cioè il rapporto, legato al rapporto tra letteratura e giornalismo, quello tra verità e invenzione.
Qui vi riporto un’affermazione contenuta in una lettera che scrisse ad Emilio Cecchi, parlando dell’articolo che aveva scritto su di lui dopo averlo incontrato: “Ci troverai parole che non hai pronunciato, ma che il mio fiutaccio, nel quale incondizionatamente fido, mi dice che avresti potuto pronunziare e che ad ogni modo non ti compromettono di certo. Lo fo spesso, anzi lo fo sempre perché ho della verità un concetto aristotelico e preferisco scrivere un ritratto vero con aneddoti falsi, che un ritratto falso con aneddoti veri, il che come sai può benissimo accadere”.
In una lettera che invece gli inviò Dino Grandi, grande esponente del fascismo, in riferimento al Gran Consiglio del 1943, si può leggere: “Caro Indro, tu sei uno stregone, perché io al Gran Consiglio c’ero, te no, però lo hai raccontato molto meglio te che non c’eri che io che ero presente ed ho vissuto questa esperienza”. L’aspetto dunque letterario del giornalismo, “colore giornalistico”, “arricchimento letterario” di un racconto, è fondamentale per rendere il racconto giornalistico un classico e secondo me Montanelli, per certi aspetti e per tante cose che ha scritto, può essere considerato non “soltanto un giornalista” o un letterato, ma uno scrittore che ha una sua classicità, che può parlare agli uomini del suo tempo, agli uomini d’oggi e a quelli del futuro, uno scrittore dunque che merita di esser letto ancora oggi.