di Martina Baroni
26 aprile 1986.
Ore 1:23:46 del mattino. È una nottata serena, una nottata come un’altra. Nei dintorni, tutto tace.
In un momento, un boato.
Un’esplosione.
Un fascio di luce azzurra si staglia nel cielo scuro. Da Pripyat, tutti guardano increduli fuori dalle finestre, qualcuno esce sui balconi, qualcuno per strada.
“È uno spettacolo bellissimo”.
Era uno spettacolo bellissimo quel fascio di particelle nucleari che brillava nel cielo blu profondo, producendo un affascinante alone azzurrino. Si sparse subito la voce che quell’alone era dovuto ad un incendio alla centrale nucleare, ma sicuramente non era niente di grave. Non poteva essere niente di grave.
Nessuno aveva idea, al tempo, che quello “spettacolo bellissimo” sarebbe diventato il loro peggiore incubo.
Nessuno aveva idea che quello “spettacolo bellissimo” avrebbe fatto sì che migliaia di persone dovessero essere sfollate nell’arco di centinaia di chilometri. Nessuno aveva idea che tumori di vario genere si sarebbero moltiplicati esponenzialmente nel giro di pochissimo tempo.
Nessuno aveva idea del reale impatto che quel fascio luminoso avrebbe avuto sulle loro vite e su quelle dei loro cari.
Nessuno lo seppe, perché il governo sovietico si batté strenuamente per soffocare la verità, agli occhi dei propri cittadini e del mondo.
Ore 1:23:46 del mattino del 26 aprile 1986. Nel cielo di Pripyat, in Ucraina settentrionale, si staglia un fascio di luce azzurra.
È appena esploso il nocciolo della centrale nucleare di Chernobyl.
Classificata al limite massimo della scala INES, o, per meglio dire, sul podio della scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici assieme al disastro nucleare di Fukushima Dai-ichi del 2011, la catastrofe dell’esplosione del reattore RBMK numero 4, della centrale nucleare di Chernobyl, liberò nell’atmosfera una nube di scorie radioattive che si espanse rapidamente sull’intera europa dell’Est, fino a toccare l’Italia, la Finlandia, la Scandinavia e arrivando addirittura a sfiorare le coste orientali del Nord America.
A 34 anni dal secondo disastro nucleare più terribile della storia dell’umanità e in un’epoca in cui la lotta per l’energia è all’ordine del giorno, sembra senz’altro doveroso tenere fresca la memoria di questo evento.
Il tema dell’energia nucleare, dato l’impulso che ha avuto recentemente la protesta per la salvaguardia dell’ambiente, non può che considerarsi attualissimo e di grande interesse, ma devo confessare che non è perché sono una grande ambientalista che il clamoroso disastro di Chernobyl ha attirato la mia attenzione.
Mi sono interessata agli avvenimenti della notte del 26 aprile quasi per caso: trovandomi una sera sul divano, cercando di affogare la noia tra le serie tv offerte da Sky Q, mi sono imbattuta nella miniserie “Chernobyl” realizzata nel 2019 dall’emittente inglese Sky Atlantic in collaborazione con la casa produttrice americana HBO, colosso che aveva già precedentemente avanzato capolavori seriali come “Il Trono di Spade”. Mi sono dunque ricordata quasi per caso che ne ricorresse proprio oggi l’anniversario e mi sembrava doveroso rendergli giustizia, consapevole del fatto che ciò che è stato non cessa mai di insegnarci.
Una ricostruzione dettagliata degli eventi come quella fornita dalla serie permette di poter conoscere lo scheletro sostanziale dei fatti e di poterne trarre le proprie conclusioni senza quel grande dispendio di energie che comporterebbe la lettura di tutte le complesse dinamiche che hanno portato alla catastrofe… Tuttavia, invito a non affidarsi esclusivamente alla serie per poter avere un’approfondita conoscenza dei fatti, dato che proprio in quanto “serie” non esclude qualche licenza cinematografica, sebbene la maggior parte di suddette eccezioni siano a mio avviso ampiamente perdonabili se confrontate alla ricostruzione generale. Non nascondo, perciò, che mi rallegra particolarmente vedere come le trasmissioni sul piccolo schermo possano avere un impatto così positivo nella diffusione culturale quando raggiunge una certa qualità. Effettivamente, in 5 puntate da un’oretta ciascuna, la storia della catastrofe di Chernobyl prende forma, sebbene la tragedia raccontata non si limiti agli avvenimenti del 26 aprile… la seconda tragedia di cui ci parla la serie è quella di Valerij Legasov, il chimico che eroicamente riuscì a mitigare le conseguenze del disastro coordinando le operazioni in prima persona, sul campo minato dalle radiazioni che circondava l’area del reattore, consapevole che tale esposizione l’avrebbe condotto alla morte.
Ma a cosa ci riferiamo quando parliamo di “disastro nucleare di Chernobyl”? Cosa successe quella notte di 34 anni fa? Com’è stata gestita l’emergenza dal governo sovietico? Qual è il vero bilancio delle conseguenze? Come mai un colosso anglo-americano si è preso la licenza di portare alla luce dei ricordi così scomodi per la Russia? Perché è importante ricordare ancora oggi questi fatti?
Sull’onda della curiosità dell serie, ho deciso di scendere più in profondità, di tornare a Pripyat, nella primavera del 1986.
Riportando indietro l’orologio, torniamo indietro di 34 anni, alla notte del 26 aprile.
Gli eventi si svolsero rapidissimi, in una concatenzazione fatale inevitabile (o forse sì?) che determinò le sorti della centrale in meno di un’ora. Un’indagine fu portata avanti nei giorni immediatamente successivi all’esplosione e nei mesi a seguire, al punto da protrarsi fino al 1987 inoltrato e coinvolse un team di chimici nucleari ed esponenti del governo impressionante. Nel corso dell’inchiesta che venne svolta, le cause principali furono indicate variamente in gravi mancanze da parte del personale, sia tecnico che dirigenziale, in problemi relativi alla struttura e alla progettazione dell’impianto stesso e della sua errata gestione economica e amministrativa…
È il 25 aprile 1986, in Italia ricorre la festa della Liberazione dall’occupazione nazifascista. A Pripyat, i dirigenti della centrale nucleare V.I. Lenin mettono in programma un test di sicurezza per ufficializzare definitivamente il corretto funzionamento dell’impianto del reattore 4. Il test si svolgerà quella notte, poco dopo il cambio del turno. La simulazione era volta a verificare per quanto tempo le turbine di raffreddamento dell’impianto avrebbero continuato a funzionare in caso di interruzione di potenza per un incidente. Non essendo stato preventivamente informato riguardo alle procedure da attuare, il personale della sala di controllo del reattore 4 si rese responsabile della violazione di svariate norme di sicurezza, portando a un brusco e incontrollato aumento della potenza (e quindi della temperatura) del nocciolo del reattore stesso. Per capirci, in 4 secondi e mezzo la potenza all’interno superò di 120 volte la capacità totale del reattore. Il susseguirsi di reazioni chimico fisiche concatenate che ne derivò provocò la rottura delle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore. Quando il personale cercò di riabbassare le barre di controllo di boro (che erano state volutamente disattivate), il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente delle terminazioni delle barre con l’aria, a sua volta, innescò una fortissima esplosione, che provocò lo scoperchiamento del reattore e di conseguenza causò un vasto incendio.
Una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pericolosamente e rendendo necessaria l’evacuazione e il reinsediamento in altre zone di circa 336.000 persone. Quella zona, che comprendeva un’area di 2.600 km2, fu completamente isolata (sebbene con un discreto ritardo) ed è conosciuta tutt’oggi come “zona di esclusione”. Pripyat divenne una città fantasma. La fauna circostante venne abbattuta poiché gravemente contaminata, ma oggi, a distanza di 34 anni, numerosi animaletti stanno ripopolando la foresta rossa che circonda il defunto reattore, sebbene si registrino ancora picchi di radiazioni elevatissimi, come ci hanno dimostrato gli incendi che si sono diffusi in quella zona nell’ultimo mese (ma di cui si è sentito davvero poco parlare a causa della saturazione mediatica di notizie da Coronavirus).
In effetti, oggi del reattore 4 di Chernobyl non resta che un grande sarcofago di acciaio, sostituito nel 2016 al provvisorio contenitore costruito al tempo della tragedia nella speranza che potesse durare abbastanza da far smaltire le radiazioni.
Che, nel 2019, il disastro di Chernobyl sia stato brillantemente riportato alla ribalta in una serie ideata e sceneggiata dal newyorkese Craig Mazin (che ha rivestito lo stesso ruolo di sceneggiatore per Scary Movie 4) e diretta dal poliedrico svedese Bo Johan Renck, è stata per me una sorpresa. È stata una sorpresa poiché ben consapevole dei tesissimi rapporti internazionali che c’erano al tempo tra Russia e America, nel precario clima della guerra fredda… È stata una sorpresa poiché, al tempo dell’incidente, il governo del Soviet presieduto da Mikhail Gorbachev fece di tutto per mantenere le reali dimensioni dell’incidente segrete. Si pensi che il segretario generale Gorbachev non avrebbe nemmeno voluto comunicare ufficialmente l’immenso incidente nucleare, che venne scoperto tuttavia casualmente pochi giorni dopo da alcuni dipendenti della centrale nucleare Forsmark, in Svezia, quando il loro allarme per le radiazioni scattò senza che ci fossero problemi interni all’impianto…
Per non dare conferme al mondo della debolezza strutturale interna dell’Unione Sovietica, dapprima il Partito rifiutò i dati forniti da Legasov alla commissione appositamente istituita, dopo di che, presa coscienza della portata dell’accaduto, fece di tutto per non far trapelare le informazioni, al punto da costringere Legasov a mentire quando fu invitato a descrivere l’incidente di fronte all’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (AIEA) di Vienna. Il chimico ricevette pesanti censure da parte del governo russo e fu costretto al silenzio… I numerosi dossier che scrisse in seguito, nei quali descriveva la realtà dei fatti, non vennero pubblicati che dopo la sua morte a causa del divieto del governo russo. Legasov si suicidò, impiccandosi il giorno esatto del secondo anniversario della catastrofe di Chernobyl, lasciando numerosi nastri registrati che vennero ritrovati e analizzati in seguito, quando la notizia della sua morte fece crollare il già instabile edificio di menzogne e omertà allestito dal governo sovietico.
Sul bilancio definitivo dei danni, i report sono decisamente discordi. Da un lato, i documenti ufficiali del governo russo riportano che il numero di vittime dirette dell’incidente non è che 31. Tuttavia, questi dati non vengono aggiornati dal 1987 e non tengono perciò in considerazione tutti coloro che sebbene siano stati esposti direttamente all’incidente hanno subito gli effetti delle radiazioni nell’arco di 5/6 anni. Inoltre, il report del governo ignora completamente tutti i casi di tumori riconducibili alle radiazioni che si sono moltiplicati esponenzialmente negli anni a seguire. D’altro canto, l’ONU riporta 4.000 vittime almeno, mentre associazioni antinucleari come Greenpeace segnalalo cifre ben più alte, fino a un tetto di 6.000.000 di vittime.
Se non è facile stimare quante persone abbiano perso la vita a causa dell’incidente, ancora più difficile è fare un bilancio del numero delle persone che hanno riportato danni da esposizione passiva alla nube radioattiva…
A distanza di quasi 40 anni, ci troviamo in un’epoca in cui la corsa all’approvvigionamento energetico volto alla crescita economica è diventato ciò che muove le nazioni sullo scacchiere internazionale. Considerato che i combustibili fossili già cominciano a scarseggiare e che mancheranno sempre di più giorno dopo giorno, lo sguardo va rapidamente rivolto alle energie rinnovabili. Ora, in due parole il sistema che permette alle centrali nucleari di produrre energia si fonda su una reazione chimica continua che avviene autonomamente nel nocciolo dei reattori, producendo calore che a sua volta surriscalda l’acqua che, trasformandosi in vapore, aziona dei meccanismi che la convertono in corrente elettrica. Niente CO2 e grandi quantitativi di energia in poco tempo, eccellente. Purtroppo però, se il nucleare si presenta come una buona alternativa (in quanto redditizia) al consumo di combustibili che liberano CO2, come si può considerare questo tipo di energia “ecosostenibile” e non “minacciosa”? Come si può non vedere i clamorosi danni che porta all’ambiente? Come si possono ignorare le radiazioni, nemiche ancora più silenziose e letali dell’anidride carbonica? Come si possono ignorare le scorie radioattive che impiegano secoli a smaltirsi? Se il surriscaldamento globale ci si presenta oggi come un nemico che potrebbe soffocare l’umanità tra 10 o 20 anni, come si fa a non pensare che un piccolo incidente in una centrale nucleare potrebbe soffocarci dall’oggi al domani?
La risposta a questi interrogativi possiamo lasciarla al buon senso, ma questo è, a distanza di 34 anni, il monito di Chernobyl; questo è, a distanza di 34 anni, il significato del ricordo di quella notte, quando un bellissimo fascio azzurro ha illuminato i cieli di Pripyat.
Ricordare il 26 aprile 1986 significa ricordare le persone le vittime dirette, indirette e gli innumerevoli sfollati che hanno perso tutto per quel bisogno di energia… E se di Chernobyl, ancora oggi, non resta che una landa desolata, consumata dallo spettro delle radiazioni, il minimo che ci spetta è di renderle giustizia, alimentando i carboni di quel bruciante ricordo.