Il fondo dell’universo

di Ludovico Tambellini

  Nei suoi interminabili viaggi Martin visitò ogni sorta di pianeta e stella, in lungo e in largo girò l’universo tanto da arrivare a pensare che nulla fosse più nascosto ai suoi occhi, nemmeno il più minuto frammento di roccia che vagava negli angoli remoti del cosmo.

   Le persone sono solite pensare che lo spazio sia la culla di infinite possibilità e fantasie ma Martin non la pensava così: in anni di esplorazione realizzò quanto fosse noioso e monotono l’universo. Neanche lui ci credeva ma in poco tempo si rese conto che ciò che caratterizzava il più esteso degli oceani non era altro che un ammasso di pietre, grigie e tristi rocce che addobbavano un nero imperscrutabile. Sentiva tradito il sé bambino catturato da quegli universi pieni di vita e di avventura che vedeva in tv; Star Wars era una completa finzione e lo capì solo a trent’anni nel pieno delle sue aspirazioni.

   La mancanza di stimoli lo immerse in una profonda depressione, poiché non c’era niente di peggio per Martin di vedere i sogni di una vita infrangersi nella cruda realtà. Era ambizioso, fin da piccolo lo fu, voleva scoprire qualcosa, passare alla storia come un grande esploratore, un rivoluzionario, un portatore di virtù e perseveranza, ma non era altro che una macchietta, e la consapevolezza di ciò lo privava della fiamma carburante dei suoi viaggi e della sua esistenza. In uno dei tanti giorni vuoti e tristi che accompagnavano la sua vita una fulminante idea pervase la sua mente: “Cosa c’è nel fondo dell’universo?”

   Sembra un’idea stupida, e forse lo è, ma scosse qualcosa dentro di lui, qualcosa di tanto potente e profondo da fargli ritrovare la voglia di fare ciò che amava. Egli pensava che chiunque avesse esplorato lo spazio lo avesse fatto per scoprire i suoi confini: vedeva gli esploratori sfrecciare con le loro grandi e piccole navi a destra e a sinistra, raramente però andavano verso l’alto e quasi per certo mai osavano andare verso il basso, o almeno verso quello che egli credeva essere il basso. Martin conosceva l’universo e le leggi che lo regolavano e quel pensiero andava contro ogni cosa da lui studiata, era totalmente fuori da ogni logica ma ormai era stato deluso così tanto dalla razionalità che decise di aggrapparsi a quell’ultimo barlume di pazzia. Quella stessa pazzia soverchiò la prudenza e senza pensarci troppo con uno zaino pieno solo di ambizione e speranza l’intrepido navigatore partì. Non era certo nuovo a viaggi del genere ma una sensazione di quel tipo non la provava dalla prima volta che salì su una nave, ed era fortunato, perché la libertà e la gioia di esistere non possono altro che essere le più belle emozioni che un essere umano possa provare.

   Si abbandonò così, come un giovane Kerouac, al casuale corso degli eventi che la nostra esistenza ci permette di percorrere. Ben presto si stancò di guidare ed essendo la strada da seguire un’infinita retta decise di impostare il pilota automatico e godersi il ben noto panorama che da sempre il cosmo gli donava. I pianeti, gli astri, gli asteroidi, le schive sfumature del cosmo e pure le più piccole particelle non erano altro che fiori in un eterno prato corvino, e Martin come il più piccolo degli organismi non poteva fare altro che osservare, in silenzio, ciò che dio aveva creato. Solcò per giorni e giorni gli immensi mari dello spazio senza la benché minima traccia di timore, fino a che l’ultimo timido astro non gli passò di fianco. Quella gracile stella non rappresentava solo un semplice corpo fisico ma era l’ultima possibilità di ripensamento, da lì cominciava l’abisso, e una volta sorpassata anche la luce in fondo al tunnel si sarebbe spenta e l’infinito avrebbe aperto le porte.

   Non c’era più nulla che l’occhio poteva percepire, né una stella né una roccia, ma solo denso e terso buio. Martin si stava immergendo nel più profondo degli oceani dove nessun uomo aveva mai avuto l’ardore di addentrarsi; era il primo al quale era mai stata proiettata nell’iride tale oscurità. Viaggiò per anni oppresso da un nero quasi irreale che lo circondava, in bilico tra libertà e claustrofobia. Sebbene potesse sembrare infelice Martin era abituato a stare da solo, non pensava ci fosse niente di meglio che stare abbracciati con sé stessi, ma non era così. Questa sua convinzione non era altro che una maschera dei suoi sentimenti, un primordiale istinto di sopravvivenza per non cadere nel baratro della solitudine, ma questa maschera d’un tratto si ruppe.

   Senza alcun motivo riaffiorò alla mente dell’astronauta l’unica persona che gli aveva provocato un turbine di sentimenti positivi in grado di sconvolgere la monotonia delle sue giornate: era una ragazza conosciuta diversi anni prima con la quale aveva avuto la parvenza di essersi innamorato, non riuscendo però neanche a parlarle. Quei momenti passati fecero realizzare a Martin qualcosa che infranse il castello di carte sul quale si reggeva, raggomitolandosi in posizione fetale sul gelido e aspro pavimento pensò a quanto era solo e infinitamente triste in quanto per lui la vita nello spazio, a migliaia e migliaia di chilometri dalla vita umana, era identica a stare sulla terra nell’indifferenza. Prese coscienza che i suoi viaggi non erano altro che un saldante della sua vita, che senza obbiettivi da lui stesso creati sarebbe caduta a pezzi in quanto vuota e arida, ma essi alla fine non bastavano a renderlo veramente felice. La felicità la provava solo quando pensava a quella ragazza, solo nei suoi costrutti mentali era felice, solo nella percezione fittizia di lei si realizzava.

   Tutto ciò era un pensiero estremamente immaturo, ingigantito dagli anni e dalla stanchezza, ma comunque riuscì ad iniziare a far sciogliere quella patina di ghiaccio attorno al cuore di Martin, quel sottile strato solido forgiato da anni di sofferenza che gli negava l’umanità. L’istinto riprese il controllo della situazione e Martin per mettere una pezza a questa frattura che deviava le sue ambizioni si ripromise di cercare quella persona una volta tornato sulla terra e testardamente riprese il viaggio, lasciandosi alle spalle quella traccia di debolezza e di paura. La vita di Martin aveva riscoperto un significato più profondo della sola ricerca di fama e successo, e proprio quando essa acquisisce un senso allora la morte inizia ad essere mal accetta.

  “Sono forte, sii forte” si ripeteva altalenante nella penombra di quella angusta stanza dove si poteva percepire l’anima dell’uomo più fragile che l’universo avesse mai concepito. Un pugno di sabbia reggeva il suo io, un pugno di sabbia che si opponeva al vento, una manciata di polvere che con tutte le forze cercava di trovare la sua direzione. Nell’esatto periodo in cui il drammatico phatos raggiungeva il massimo sviluppo Martin decise di sposare il suo stato d’animo con una canzone, la più struggente musica che avesse mai scovato: un susseguirsi di lievi suoni perfettamente incastrati tra loro, così alienanti che non sembravano neanche umani tanto erano perfettamente annodati. Se mai avesse dovuto pensare alla musica che il cosmo produceva secondo Pitagora avrebbe immaginato proprio quella che ora, con la sua delicatezza, invadeva la stanza.

I don’t like leaving


The door shut


I think I missed something


But I’m not sure what.

   Il viaggio continuò con questa atmosfera melancolica che palleggiava con la psiche di Martin; la sua nave continuò per giorni che la routine rendeva interminabili a scivolare nell’abisso, in quella lunga caduta verso l’ignoto. Arrivò il momento in cui si sentì terribilmente scoraggiato, per un attimo le sue follie persero la presa riaggrappandosi poi frettolosamente e a stenti.

   Decise così di darsi un altro anno di tempo, dopo di che sarebbe tornato sulla Terra in quanto, anche se non lo aveva ben capito, aveva trovato il suo motivo per vivere. Abbandonarsi all’universo, lasciarsi accogliere da colui che ci ha generato, l’ambizione, la gloria sembravano concetti lontani ormai, surclassati dal più comune dei sentimenti.

   Passò un mese, poi un altro, un altro, un altro un altro e un altro ancora. La fine dell’impresa stava per sopraggiungere, correndo a passo andante si avvicinava al suo compimento ma l’universo non aveva la grazia di concedere neanche uno stupido pezzo di materia. Nulla. Non c’era veramente niente, se non quell’oscurità protagonista di ogni millimetro di orizzonte, forse già quel buio così puro e ininterrotto era già un grande scoperta. D’altronde non è facile rendersi conto di cosa voglia dire fluttuare nel vuoto più totale senza alcun punto di riferimento, in un piano tridimensionale nel quale Martin e la sua nave erano gli unici oggetti tangibili.

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Natale in casa Cupiello e la bellezza del teatro

Uno sguardo alla Napoli degli anni Trenta con Eduardo de Filippo

di Rugiada Menconi

   “Questo Natale si è presentato come comanda Iddio”. È questa una delle prime battute di Natale in casa Cupiello che mi è rimasta particolarmente impressa, probabilmente perché in netto contrasto col Natale che abbiamo appena passato, che sicuramente non “si è presentato come comanda Iddio”, dato che siamo stati costretti a spenderlo con delle forti limitazioni che sembrano, in parte, aver tolto quella magia che rende il Natale uno dei giorni più belli dell’anno.

   Natale in casa Cupiello è un’opera teatrale tragicomica scritta nel 1931 dal drammaturgo napoletano Eduardo de Filippo. In questi giorni ho avuto il piacere di guardarla, e anche di poterla confrontare con la trasposizione televisiva andata in onda su Rai 1 il 22 dicembre, sotto la regia di Edoardo de Angelis, e per questo mi sento in dovere di spendere due parole a riguardo.

   L’opera vede come protagonista una famiglia della piccola borghesia napoletana, che vive in un equilibrio precario a causa dei diversi problemi che riguardano ogni suo componente: Luca, o Lucariello, è un vecchino ingenuo che vive all’oscuro dei disagi familiari, e che, ogni anno, prima del Natale, si dedica con tutto sé stesso alla costruzione del presepe, che, come dice lo stesso De Filippo, è un presepe meschino, piccolo, che però a Luca sembra un regno. Poi c’è Concetta, sua moglie, una donna anziana che svolge il classico ruolo da casalinga, ed è l’unica confidente della figlia Ninuccia; insieme a loro vive il fratello di Luca, Pasquale, vittima dei furti da parte di Tommasino, il figlio nullafacente e pigro di Luca e Concetta, che viene sempre difeso dalla madre per i suoi errori. Infine c’è Ninuccia, vittima di un matrimonio combinato con Nicola, (affettuosamente chiamato da Luca “Nicolino”), un uomo ricco ma rozzo e ben più anziano, e innamorata di Vittorio, uomo più giovane e povero, ma decisamente più affezionato a lei. 

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Natale in Spagna

di Slivia Picchi e David Michelini

   Il 2020 è stato un anno un po’ particolare, che ci ha fatto riflettere sull’importanza di molti valori. Soprattutto in questi giorni di festività, ci manca la “normalità”, la gioia di un Natale tradizionale… Non abbiamo la possibilità di viaggiare, di seguire le nostre tradizioni, di passare questi momenti tra l’affetto e la gioia delle nostre numerose famiglie. Proprio per questo, è importante non lasciare che il Natale perda la sua magia, aprendo gli occhi a nuovi orizzonti e a nuove culture, attraverso i ricordi o i racconti degli amici.

   Ad esempio, usiamo la magia del Natale, o la fantasia se preferite, per teletrasportarci in Spagna in un anno diverso da questo… come potremmo festeggiare là il Natale?

   È il 24 dicembre: partono i festeggiamenti e si celebra la Vigilia di Natale o meglio la Nochebuena (“notte buona”). In questa serata, ci riuniremmo con tutta la nostra famiglia spagnola per celebrare la cena più importante dell’anno. I prodotti tipici locali e le specialità spagnole riempirebbero abbondantemente la tavola e la serata sarebbe animata dai villancicos, canti relativi a Betlemme, alla vita di Gesù o a fatti quotidiani. Dopo la cena, Papá Noel (“Babbo Natale”) distribuirebbe i regali a tutti i bambini presenti e potremmo vedere i loro sguardi felici illuminarsi alla vista di questa figura rossa. Andremmo a dormire contenti e ben sazi e ci sveglieremmo il 25 mattina o meglio Navidad (“Natale”), pronti per festeggiare a pranzo con un banchetto simile a quello della sera prima. In questo giorno, ci riuniremmo tutti davanti alla televisione per ascoltare il re di Spagna che legge il suo messaggio di auguri.

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Le costituzioni e i tornanti della storia. Un’intervista a Michele Ainis

A cura di Alessandro Rosati

Alessandro Rosati: Le faccio una domanda giusto perché ci rivolgiamo a un pubblico principalmente di adolescenti e la gestione del tempo è una cosa importante. Lei ha collaborato con La Repubblica, L’Espresso, Il Corriere della sera, La Stampa e quindi la mia domanda è: quanto è difficile nel suo lavoro gestire tante attività e come è solito organizzarsi?

Michele Ainis: Bella domanda… lavoro pure la domenica e quindi diciamo che uso tutto il tempo che ho a disposizione… e poi penso che sia uno stimolo stare sopra più tavoli, fare più mestieri. Se dovessi dire, a voi ragazzi che fate il liceo scientifico, qual è la cosa che faccio con più interesse in realtà, è dedicarmi alla narrativa… tra un paio di mesi esce il mio terzo romanzo, anche quello non so quando l’ho scritto… ma l’ho scritto.

A. Rosati: Ho visto che ha scritto tanto, le volevo fare una domanda un po’ più specifica: nel 1999 lei ha pubblicato se 50.000 leggi vi sembran poche e, parlando di un paradosso tutto italiano e anche della burocrazia eccessiva, la mia domanda è: a distanza di vent’anni cosa è cambiato?

M. Ainis: La situazione è peggiorata, nel senso che prima si scrivevano troppe leggi e adesso se ne scrivono di meno, ma con troppi commi. Quindi se noi andiamo a misurare la quantità complessiva, questa quantità è cresciuta. Io questo tema l’avevo affrontato nel primo libro, dopo aver vinto la cattedra universitaria che uscì fuori dai circuiti accademici, che non era quello che citava lei. Due anni prima infatti era uscito da Laterza La legge oscura … in cui si parla dei labirinti dei nostri diritti legislativi e dell’inferno burocratico che ne deriva. Poi nel ‘99 feci questo libro con Vincino… Vincino era un vignettista, è stato un personaggio molto importante, è morto un paio di anni fa. È anche personalmente uno degli incontri importanti della mia vita perché poi siamo diventati amici… Vincino fu quello che fondò Il Male, … che era un giornale satirico degli anni ‘70 e ha fatto un pezzo di storia del costume italiano. In ogni caso anche questo libro del ‘99 cavalcava quell’argomento, ma utilizzava soprattutto degli editoriali che in quel periodo scrivevo su La Stampa di Torino come mattoni per costruire questo libro. La sua domanda è: perché? Perché io credo che il prepotere e a volte la prepotenza della burocrazia derivi dalla debolezza della politica, e quando la politica è debole, ed è debole perché non è capace di produrre decisioni chiare, e allora che fa? Fa dei pasticci, fa dei compromessi che sono puramente verbali, scrive una legge che dice “abacadabra” (formula per indicare un testo di legge qualsiasi ndr), e a quel punto il funzionario delle imposte o del comune la interpeta come gli pare e il giudice che deve poi applicare quella legge diventa il legislatore. E “abracadabra” che significa? Non significa nulla… ma l’origine di tutto questo è sempre in una debolezza della politica.

A. Rosati: Quindi diciamo una debolezza della politica che poi si traduce in troppe voci che devono interpretare testi delle leggi.

M. Ainis: Sì, un po’ è questo…

A. Rosati: In Italia invece abbiamo un altro documento, che peraltro lei ha già trattato, fondamentale e forse il migliore che abbiamo: parlo ovviamente della Costituzione. A distanza di più di 70 anni dalla scrittura, come fa la Costituzione ad essere ancora così attuale?

M. Ainis: Questa è una domanda che richiederebbe molte parole, però se devo dirlo con una battuta, è perché i costituenti 72 anni fa riuscirono a coltivare la virtù della semplicità, della chiarezza. Un linguaggio generale e non pignolo come spesso è il linguaggio delle nostre leggi, un linguaggio generale che consente a ciascuno di riconoscersi nella Costituzione. Quando vi si leggono termini come libertà, solidarietà, uguaglianza… non sono respingenti, non sono parole che respingono, ma che accolgono. Essendo scritte in termini generali… potrei fare molti esempi, ma basta leggere la prima parte della Costituzione… sono parole che riescono a ricevere, assorbire dei significati diversi rispetto a quelli che avevano in testa i costituenti. L’articolo sulla libertà di manifestazione del pensiero, l’Articolo 21, per esempio. Quando venne scritto c’erano la radio e la carta stampata, non c’era ancora la televisione, la televisione comincia a metà degli anni 50, e tantomeno c’era Internet. Però l’Articolo 21 protegge la libertà di informazione, di comunicazione attraverso certamente la televisione e attraverso certamente internet, perché è stato scritto in termini molto generali.

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